Certo, mica tutti i giorni, ma quando mia mamma poteva tornare dal suo strano lavoro prima di sera (mi sembra di vederla ancora saltar giù dalla bicicletta in corsa, con le trecce nere e la pelle scurita dal sole risaltanti sulla camicetta chiara che mi lancia un bacio e un occhiolino d’intesa), quasi neanche si dava il tempo di lavarsi la faccia, che già andava a prendere la canna (un semplice bambù con una lenza e un amo da far sbellicare i pescatori “veri”).
Intanto io recuperavo orgogliosamente la scatola delle esche, e poi si andava giù per l’argine, con subito dietro gli altri, e in un attimo le eravamo tutti intorno, addosso, eccitati e chiassosi, finché lei con un sorriso ci diceva: “Adèss però, putìn, ste zit se no in boca brisa”- tacete sennò non abboccano.
Doveva essere una specie di formula magica, perché di colpo si faceva un silenzio quasi innaturale, e i più scalmanati seguivano con occhi febbrili il rito di quelle dolci, agilissime mani che, seppur così giovani, avevano già aiutato a venire al mondo un drappello di marmocchi, quelle mani che ora, con insospettata maestrìa, infilavano all’amo una delle mie mosche che intanto le avevo porto. Un colpetto al bambù, il ‘ploff’ leggero nell’acqua lenta del canale, e poi tutti gli sguardi religiosamente con-centrati sul mezzo sughero immobile.
Ed era questa l’attesa per cui io avevo tanto.. atteso, l’attesa cui tendeva tutta la mia giornata. Perché ora il rudimentale galleggiante s’inclinava, veniva un po’ strattonato, s’immergeva, riaffiorava, gli occhi ansiosi correvano al viso di mia madre che però non si muoveva, solo sorrideva e faceva impercettibilmente segno di no, non ancora, qualcuno azzardava previsioni dal comportamento della lenza (“L’è un gobb.. no no, l’è un pesgatt”), poi un affondo più deciso cui seguiva di rimando lo strappo con un “Adess!”, e due spanne d’argento vivo e scuro volavano sulla sponda, si dibattevano tra venti mani protese, qualcuna di queste nella fretta assaggiava l’amo, qualche altra i baffi duri della preda, volavano mezze bestemmie stemperate da urletti di gioia, ma la preda era ormai nel cestino di vimini, dando segni evidenti di non essere ancora rassegnata a quella innaturale situazione.
Come in un rito ancestrale, si veniva a creare allora una strana atmosfera, intrisa di inconfessabile pietà per la preda mista alla stringente necessità della cena, poi si ricomponeva lentamente e senza bisogno d’ordini lo stesso silenzio gravido d’aspettativa, e mentre riproponevo fiero una nuova esca al sorriso di mia madre, mani amiche mi si appoggiavano sulle spalle, mentre qualcuno sottovoce sussurrava: “Vacca d’un mond, s’l’è forta to mama!”.
No, non mi offendeva affatto essere chiamato ciapamosch...
Qualche giorno per farlo girare dentro di noi… intanto grazie, Luciano.
Non sono vissuta in una famiglia in cui gli animali erano bene accetti; non sono vissuta in una famiglia in cui si parlava il dialetto; non sono vissuta in una famiglia che viveva in campagna, ma questo racconto mi trasporta immediatamente in quella realtà che, sebbene lontana da me , risuona subito dentro di me e mi trasmette tante emozioni. Davvero complimenti a Luciano