Voglio condividere un breve racconto di Luciano Mastellari.  Luciano è un insegnante storico della Paolo Grassi. Insegnava ai tempi in cui la frequentavo come allievo e lo fa ancora oggi. Non è cambiato di una virgola. L’altro giorno mi ha parlato dei suoi racconti e trovo che  questo in particolare sia molto bello, oltre che contenere alcuni elementi narrativi sui quali mi piacerebbe riflettere. Intanto, la prima parte del racconto.

L’acchiappamosche.

Fin da bambino, la stagione che mi è sempre piaciuta di più è l’estate.

La primavera era il risveglio pigro e inequivocabile di una natura a volte generosa ma talaltra infame; l’autunno avrebbe certo portato nuovamente con sé odori, colori e sapori da riempirne un fienile; la neve d’inverno poi, da noi, in campagna, una volta, neanche potete immaginare quanta ne veniva e come trasformava le cose.

Ma l’estate, ah, l’estate..

Intanto le giornate non finivano mai, e noi bambini stavamo a piedi nudi tutto il tempo (anche per risparmiar le scarpe), ed era un gioco via l’altro: prendersi, tirare i sassi, fare la lotta, braccio di ferro, chi pisciava più lontano…

Io ero scarsìno in tutto.

Un po’ per costituzione, forse, un po’ per carattere, certo, ma anche un po’ perché preferivo dedicare gran parte del mio tempo ad un’attività in cui invece eccellevo: prendere le mosche. Sì, nella caccia ai fastidiosi insetti non avevo rivali… anche perché nessun altro bambino vi si cimentava.

Mi ero costruito un magnifico fucile da caccia con mezzo manico di scopa cui avevo inchiodato una molletta; una vecchia camera d’aria troppo volte rattoppata e ora tagliata a robusti elastici  legati fra di loro aveva fornito potenti e letali pallottole, e le imposte della casa, verdi e marroni, erano diventate la mia savana.

E lì io, accoccolato col mio bel cappello di paglia in testa, le spalle al sole e il muro di fronte, non dovevo far altro che aspettare, star fermo ed aspettare: le mosche ronzando si appoggiavano all’uscio, io prendevo la mira, schiacciavo la molletta e l’elastico partiva inesorabile e preciso. Ogni dieci prede (tante erano le munizioni ricavate) lasciavo la postazione per andare a raccogliere quel bottino che finiva in un carniere molto particolare: una scatola di balsa leggera, a tronco di cono, che era servita a contenere la marmellata di ciliege. L’apertura di quel sarcofago dolciastro e appiccicoso vi attirava pure altre predestinate ancora vive, ma io ne le scacciavo con un certo fastidio, che andassero al loro posto, ero un leale cacciatore da fucile io, non da trappole (con la precisa regola che ognuna meritava un colpo solo: se la mancavo, era libera di volare altrove)… poi mi rimettevo nella mia postazione, paziente, caricavo … e aspettavo.

Naturalmente “ciapamosch”, acchiappamosche, fu il mio primo “scucmài”, il mio primo soprannome. Come a dire che buttavo il mio tempo in cose inutili.. Ma io non lo consideravo poi un epiteto tanto cattivo, c’era sicuramente di peggio: “brusacul”, “pisalet”,”guzaporc” e simili (casomai mi fece più male, qualche tempo dopo, dover inforcare a scuola gli occhiali e subito venir apostrofato con l’infamante appellativo di “quattrocchi”, ecco, quello sì..).

Invece, dicevo, non mi faceva male quel primo soprannome perché sapevo bene che non le acchiappavo mica per niente le mosche, io, no, io le prendevo perché… servivano.  (continua…)

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