Serrature, combinazioni. Queste sono le difese più letali, più delle bombe. Perché organizzate da noi. Perché sono le cose che conosciamo e che abbiamo rimosso per il troppo dolore. Le strade per arrivare alla nostra verità sono dentro di noi. Roba grossa, pericolosa. Ma chiudere il Minotauro in un labirinto e gettarne le chiavi non si può, l’avevano capito già i Greci. Nessuna chiave è inarrivabile se si scava. Ci vuole il coraggio di trovarla e bisogna farlo in tempo utile. Ecco Fisher sbloccare il gigantesco muro blindato, eccolo aprire la porta su quel che nasconde a se stesso. Non andrò oltre nei dettagli naturalmente.

Dall’altra parte, Cobb. Al tavolo di cucina della sua vita sognata con la moglie morta. Parla con lei che gli chiede di rimanere lì, di non uscire dal sogno che insieme avevano costruito. Stupefacente come in un film così collettivo, fragoroso, arrembante, per due vie diverse i due personaggi principali si trovino ad affrontare la verità di se stessi in piena solitudine. In relazione con il padre e con la moglie, luoghi delle rispettive ferite profonde. Perché possiamo volerci tanto bene, possiamo sostenerci, accudirci, accompagnarci reciprocamente. Ma c’è un momento decisivo che è nostro. Profondamente, essenzialmente nostro. Dico essenzialmente perché è il momento che ci definisce.

Noi e la nostra paura. La nostra principessa fragile. Eccoci lì, cosa siamo. Alla fine di tanto superare muri e smontare  castelli ce l’abbiamo fatta. E la verità non ci piace, si tratta di dolore e di vergogna. Però incontrare la verità di noi stessi ci sveglia. Qui si innesta il paradosso più poetico del film che è anche il suo senso più semplice: siamo tanto più svegli quanto più siamo consapevoli di dormire. Di dormire il sonno della nostra idea del mondo, il sonno di quello che vogliamo dimenticare e che sogniamo di non sapere. O di quello che abbiamo capito benissimo e che vogliamo sognare diverso. Perché vederlo com’è ci farebbe troppo male.

Eppure, i due eroi ce la fanno. Guardano in faccia la propria paura. E la cosa strepitosa – oltre al loro momento privato e quasi meditativo all’interno di un film adrenalinico – è che nessuno dei due deve affrontare lotte. Entrambi disarmati. Entrambi esseri umani. Soli di fronte alla paura, senza lottare ma facendo una cosa ancor più difficile: riconoscendola per quello che è e accettandola. Sia Cobb che Fisher accettano di sentire il proprio lutto fino in fondo. Basta fughe. Per la prima volta stanno con quel che gli fa male sentendo che gli fa male e senza respingerlo.

Ed eccoli uscire più forti, senza più lotte, senza più nascondigli interiori. Verso il luminoso finale del film. In sala ho sentito un po’ di disappunto per una chiusura che sembra voler stare in bilico – alla lettera – non risolta. Invece secondo me il finale è netto, pulito, per niente ambiguo. Cobb torna sveglio, nel mondo reale nel senso fisico del termine. Ma ci torna come tutti noi. Con la propria configurazione del mondo. Torna come si può tornare: con il proprio sguardo sulle cose, con le proprie assegnazioni di valore, con il proprio punto di vista. Ora è più lucido di prima. Ora sa che vive la vita sognandola dal proprio sguardo. Ora, è sveglio.

 

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