
Ci siamo guardati così, domenica pomeriggio. Per qualche veloce minuto. In mezzo alla gente che chiacchierava, spingeva, fotografava come me. Separati dalla grata che si vede in foto e da tutto un mondo di significati. Ma ci siamo veramente guardati. Non c’era in gioco solo la sua bellezza e nemmeno la mia curiosità. Quando guardi questa scimmietta negli occhi senti che lei ti guarda davvero. Ti guarda sul serio. E pensa. Una cosa scioccante.
Quello che percepisco è un animaletto di una bellezza sorprendente che si aggrappa alla rete che confina la sua libertà. Ma quando fisso lei mi sembra che stringa quelle grate come si stringe qualcosa che si mostra, qualcosa che con scandalo si vuol mettere sotto gli occhi di tutti. Guarda a che cosa sono aggrappata, guarda questa prigione.
Una parte di me aprirebbe immediatamente quella gabbia. Una parte di me stupida ma sincera. Liberi tutti. Tu da quella gabbia io dal mio senso di colpa. Registro con tre scatti questo pensiero. E cosa faresti poi? Qui nella bergamasca, tra gli stradoni i capannoni le insegne chip degli spacci a metà prezzo, i camion di arance e i venditori di anfore farlocche a bordo strada, che cosa ci fa una purezza come la tua? Finisce sotto un camion di surgelati o muore di fame.
Certo, sei fuori contesto. Ecco cosa manca alla mia riflessione, e chissà quanto altro. Ma certamente era questa la variabile che non avevo isolato: il contesto che fornisce la base della libertà. Se sei fuori contesto sei fuori senso. Se non sai nuotare, di tutto lo spazio del mare non sai che fartene. Guardando la piccola bestia mi viene da dire che la libertà si fonda sul contesto che la limita., quello che definisce la nostra appartenenza e la nostra identità. Lo spazio della libertà è un cono di possibilità i cui muri esterni sono dati dalla necessità.
Eppure si vedono fiocchi sulle gabbie. Nascono cuccioli. Avevo sempre saputo che gli animali in cattività non si riproducono. Quando si riproducono dovrebbe significare che stanno bene. Così mi pare di aver capito anche se non ne so niente. Quindi poniamo che la scimmietta sia felice. E forse che lo sia anche il giaguaro, cui viene fornita una razione di qualche chilo di carne. Cruda per carità, ma bella morta. In altre parole un giaguaro nato lì dentro non può mai cacciare. Non è più quello che noi intendiamo per giaguaro. Diventa una sorta di gattone domestico.
Figuriamoci se non applico a me la stessa cosa. Ammettiamo di essere felici. In sostanza, ammettiamo che la scimmietta qui sopra non stringa la rete per mostrarmela, ma che sia solo felice di saltare avanti e indietro. Significa che non vede più la rete come rete. Ecco dove stava il punto. Sento di aver trovato il baricentro della mia peregrinazione: vedere la rete. Giaguari da divano, cacciatori di pensiero ed emozioni nutriti con chili di immagini e storie precotte quotidiane, cercatori di giustizia sociale irretiti da mille qualunquemente.
E se non fosse la scimmia ad essere chiusa dentro ma io ad essere chiuso fuori? Fuori da quella che avrebbe dovuto essere la mia avventura quotidiana? Come diceva Gaber: come un gabbiano ipotetico, con le ali troppo rattrappite per prendere il volo. Nel frattempo il giaguaro dorme sul prato. I bambini guardano, i genitori fotografano con il flash sotto un sole africano. Vedo che va molto di moda il cafè zero, ce l’hanno tutti. Dicono che sia buono. Apriamo le gabbie?
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