A un certo punto mi è apparso chiaro che sono diventato vecchio. Me ne sono accorto perché ho riso. Da solo, seduto al tavolo di cucina. Correggevo gli scritti di alcuni allievi e dopo aver lavorato un anno sull’arco di trasformazione del personaggio – lo splendido libro di Dara Marks – mi sono ritrovato un compito svolto sull’arco di trasformazione del paesaggio. Poi ho riso ancora, confesso. Allo stuolo di h messe ed omesse nei modi più fantasiosi e casuali. Alla scoperta che il fatal flaw – la ferita interiore di un personaggio – fosse diventato un total flaw. Alla disinvoltura con cui un elemento tecnico del personaggio veniva raccontato: …tipo quando ti sto addosso che non ti mollo mai.

Esiste un punto di vista facile che è anche quello vecchio e che è stato il mio immediato. Ridere – anche con una certa spocchia probabilmente. D’altro canto anche a mente fredda, se penso all’arco di trasformazione del paesaggio ricomincio da capo. Saltiamoci pure tutte le cose limitrofe – non strafalcioni ma abbrutimenti veri e propri: inesattezze copiate l’uno dall’altro sicché una frase del tutto priva di senso compare qua e là in sei o sette elaborati. Ma è uno degli esercizi più belli della vita – per me – continuare a scoprire quanto sia il mio sguardo a creare il mondo e non viceversa. Sicché mi sforzo di lavorare sul mio modo di vedere.

Non sono stupidi. Tutt’altro. Non tutti sono demotivati. Non hanno avuto tutti vite facili e in ogni caso non è che io abbia visto la guerra per poter parlare delle loro vite. Ma di fatto moltissimi fra loro non riescono a mettere insieme due parole in italiano. E questo lungi dall’essere un problema accademico è una situazione esistenziale. Lo si vede dai casi felici. Dai compagni svegli e con un linguaggio pronto e preciso. Sono diversi anche i loro occhi. La loro capacità di seguire, digerire, sentire, rielaborare e costruire senso. E’ vero – come si dice – che il linguaggio è il pollice opponibile del pensiero per prendere la realtà.

Mi fermo su questo punto. Prendere la realtà con il pensiero. Relazionarsi a quel che si ha davanti. Bisogna che esista un linguaggio per questo, un linguaggio nel vero senso della parola, cioè non quello che si usa tra le persone per comunicarsi dati ma quello che include in se stesso anche le due persone che si comunicano dati. Il linguaggio all’interno del quale esistiamo. Il linguaggio che fa sì che ci possiamo collocare all’interno del mondo in cui viviamo. Che ci permette di chiamare con un nome quello che sentiamo dentro di noi. Più preciso è il nostro linguaggio, più affilato il bisturi con il quale sezioniamo il cuore e la mente.

Di qui mi domando che operazione sia stata fatta, volontariamente o meno. E da parte di chi. Perché i ragazzi sono bravissimi con i loro mac, velocissimi in rete, multimediali e multi tutto. Eppure… quando si esprimono ti sembra di sentire la loro fatica a contattare le parole. I congiuntivi sono un ostacolo, gli aggettivi non più di tre o quattro, le risposte – anche quelle brevissime – tutte omologate (e spesso scorrette): assolutamente sì. Se non è assolutamente non è . L’Accademia della Crusca non c’entra. E’ che senza linguaggio l’uomo perde la capacità di assegnare significati. Ogni volta che cambiamo idea, per esempio, diamo agli stessi eventi un senso diverso. E cioè chiamiamo i fatti con nomi diversi da quelli che usavamo prima. Potremmo farlo senza il linguaggio? Oppure in tutti i malintesi: la loro risoluzione passa sempre dalla comprensione che l’altro dice le cose nella sua lingua.

Questo crepaccio che sento aperto tra moltissimi ragazzi e il linguaggio, lo sento aperto dentro di loro. Qualcuno me l’ha anche confidato, ogni tanto. Non sapere cosa si sia, cosa si voglia. Non essere abituati a parlare, a chiamare le cose dentro di sé. L’arco di trasformazione del paesaggio visto con altri occhi mi lascia muto e per niente allegro. Quand’è successo che abbiamo perso le parole? Chi è stato?

0 risposte

  1. Ieri ho usato la metafora del linguaggio come pollice opponibile in una lezione sull’Ingegneria del Software (citando la fonte). Grazie…

    Un abbraccio
    Pasquale

    P.S.
    Anche se in ritardo, buon compleanno per ieri!

  2. Grazie Pasquale. Per gli auguri e per la visita. Tengo a precisare che la fonte autentica è il fantastico Jerome Bruner. Se entri nei suoi testi non riesci più ad uscirne… ti manca il pollice opponibile per chiudere il libro!!! Ti abbraccio. Si vocifera che ci vedremo presto. Mi piacerebbe da morire. Chissà. gio.

  3. Caro Giovanni,

    Mi permetto di condivedere con te (e con gli altri amici del blog) una mia personale associazione di idee, nata spontaneamente, ed ispirata dal tuo testo.

    Si tratta di “Evaporazione”, degli Area (da “Maledetti” album progressive-rock del ’76), dove la reiterata scomposizione sintattica di una stessa frase (ndr. “Abbiamo perso la memoria del 15° secolo”…) suggerisce una riflessione sulla perdita progressiva di consapevolezza dell’umanità…

    Perdita di parole, perdita di coscienza (la memoria del 15° secolo), perdita di identità.

    Come sempre, grazie per il nutrimento e per gli stimoli, my friend!

    Ste

  4. Caro Gio’,
    non lo so se si tratta di vecchiaia, so soltanto che provo le stesse sensazioni quando leggo le mail dei più giovani, quando li ascolto. Sì è vero, anche alcuni adulti si esprimono a monosillabi e con linguaggio stereotipato ma sentirlo nei ragazzi fa più male. Credo che si tratti brutalmente di ignoranza e non basta la scuola allo sfascio per spiegare tutto questo…

    Grazie per il bel post

    Silvia

  5. è così!
    loro dicono tipo ogni frase noi dicevamo
    cioè
    nella misura in cui
    nell’ottica
    cazzo
    vabbé il linguaggio cambia, a volte ho una vaga sensazione di neolingua ..
    forse ha a che fare con il leggere meno libri. leggere un libro non ha la stessa valenza di leggere lo stesso numero di pagine su internet.
    a proposito dello scrivere, Io tendo ad abolire le maiuscole (tranne Io che scrivo rigorosamente maiuscolo).
    questa è un’abitudine da quando chatto su facebook ..
    credo che noi, quelli nati negli anni 60 e 70 del secolo scorso (azz) siamo profondamente nel mezzo di un cambio di paradigma, non siamo più (tutti) i valori dei nostri padri e i valori che proviamo a trasmettere ai nostri figli per loro non valgono.
    bella situazione …
    la mia risposta è che il cambiamento irreversibile in atto va surfato e a volte bisogna spiazzare un giovine rispondendogli “bella, non c’ho sbatti, sentiamoci dopo”
    🙂

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