Cammino avanti e indietro lungo il marciapiede. E’ molto tempo che non mi capita di gironzolare con la macchina in spalla. Sono qui per un backstage, è un bar molto in di Milano. Mi appartengono poco i bar, mi appartiene poco Milano: abbiamo tutto, penso. La gente comincia ad arrivare.  Impeccabili all’ora dell’aperitivo dopo una giornata d’ufficio. Ci sono decorazioni fatte con fiori finti. Mi viene da pensare a quando la serata sarà finita, all’uomo stanco che li raccoglierà, li rimetterà nell’imballo e li porterà nel prossimo bar per la prossima serata. Il fiore finto è senza difese: senza profumo, senza qualità specifiche. La sua qualità è la mano dell’uomo che l’ha fatto.

Mentre passeggio mi telefona Silvia. Silvia sul mio cellulare è senza cognome: Silvia Vernicefresca. La sua voce mi trascina ad Avellino, a tre giorni di training con un gruppo di giovani attori con i quali ho passato moltissime ore in pochissimo tempo. Eccomi in autostrada sotto la nevicata, poi nei ristoranti – ogni sera uno diverso – per assaggiare le specialità del luogo. Eccomi a parlare con Max di Gomorra, sul quale non abbiamo nemmeno un’idea in comune.  Eccomi in aereo con l’Italia tutta bianca di neve.

Il mio orecchio ascolta le voci del gruppo, mi salutano tutti.  Mi hanno chiamato perché festeggiano l’apertura della nuova sede.  Bellissima – dicono. Mentre li ascolto vedo la gente che si accalca al buffet sul banco bar. Penso di essere metà da una parte metà dall’altra, tra Milano e Avellino. E mentre lo penso mi passo il polpastrello del pollice sulla nocca del medio. Non c’è più segno di cicatrice, ora.

E’ stato durante l’ultimo bagno di quest’estate, con Samuele.  Abbiamo girato, guardato, ci siamo indicati pesci e scogli, e uno strano fondale di sabbia che sembrava spostarsi sotto di noi tirato dalla corrente. Un lungo giro. Sono andato troppo sotto riva, il mare non era tranquillissimo e mi ha spinto contro uno scoglio. Mi sono graffiato la nocca del dito medio, appena un po’ di sange e nessun dolore. Accidenti, che scemo, non ci si avvicina così alle rocce quando il mare si muove.

Due giorni dopo sono a Milano, Esselunga. Sto facendo la prima spesa, un sacco di roba per far ripartire la casa dopo le ferie. Accosto il carrello già pieno e mi schiaccio il dito contro lo scaffale, esattamente sulla nocca del medio. Risento quel piccolo bruciore e torno là, vicino allo scoglio, con Samuele vicino, il fondo di sabbia che si muove, qualche sarago carino che ci passa sotto e la luce del sole che filtra a colonnine sott’acqua.

Cammino ancora fuori dal bar, ascolto nel frattempo Max che mi conferma la sua felicità per la nuova sede di Vernicefresca. Con l’occhio controllo l’inizio della serata, una parte del cervello è all’Esselunga e un’altra in acqua, con il mare che si muove e gli scogli un po’ troppo vicini. In più c’è un’altra parte, come un osservatore dentro di me, che contempla il divaricarsi delle strade e le percezioni sovrapporsi e sommarsi.

Mi chiedo dove io mi trovi realmente. Mi chiedo in quale tempo. Mi rispondo: presente, in ognuno di questi luoghi. Il tempo è ogni momento e tutti i momenti sono qui. Lo scoglio è a Milano, nel mio pollice che lo cerca sul medio. Quanti luoghi ci sono in un luogo ? Quanti tempi in un tempo ? Qualcosa in tutto questo mi rende semplicemente felice. Non so cosa sia, ma glie ne sono grato.

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