
E’ un problema su cui sento di dover ancora meditare a lungo: la relazione tra la prima e la seconda parte del secondo atto. Il momento in cui il personaggio dà tutto per ottenere ciò che vuole, e lo fa con ogni risorsa conosciuta. Finché il mondo non gli dice un no talmente grande che finalmente cede ed è costretto a ripensarsi. A trovare nuove logiche, o forse più semplicemente ad accettare quelle che la vita stava tentando da molto tempo di comunicargli.
Il secondo atto mi sembra sempre di più il momento in cui lottiamo disperatamente contro il mondo perché assomigli a come ce lo configuriamo noi, e contro noi stessi affinché impariamo a configurarci il mondo il più possibile come dimostra di essere. Il problema, in entrambi i casi, è l’integrazione, l’armonia tra la mente e l’ambiente, o come si diceva qualche giorno fa, tra il profondo e il mondo.
Lo sforzo è sempre quello di navigare più al sicuro possibile. Nessun personaggio cambia gratuitamente. Si cambia solo se e quando vi sono ragioni inevitabili per farlo. Ma non c’è solo questo.
E’ che il cambiamento ha tanti punti di osservazione e non è mai facile raccontarlo. Il primo passo del cambiamento non è, di solito, il rendersi conto di qualcosa che non va dentro di sé, ma il vedere le cose intorno a noi in modo diverso da prima. Quando il mondo cambia intorno a noi, sia perché cambia realmente, sia perché noi lo vediamo diversamente, compiamo uno sforzo di compensazione, di adattamento. E allora, sì, è possibile anche un sincero e disincantato sguardo interiore.
Sappiamo che una storia non è una fila di fatti ma il racconto di un’esperienza, e cioè di ciò che questi fatti hanno comportato dentro un personaggio, e sappiamo che l’esperienza non la si racconta osservando il personaggio con i nostri occhi ma osservando il mondo della storia con gli occhi del personaggio. Forse allora il secondo atto, il cuore del film, ha come universo profondo il cambiamento di uno stato di coscienza. E’ l’epopea dell’uomo che cerca di configurarsi il mondo correttamente, o diciamo per lo meno funzionalmente.
Il rapporto tra fatti e senso, tra parole e risonanze, è decisivo e finale nella valutazione di una storia o di un film.
Scrivo subito dopo aver visto “Il paziente inglese”, avendo finito di studiare le considerazioni di Walter Murch sul montaggio di quel film. E trovo che da questo punto di vista sia straordinario. Gli spazi esterni sono quelli interiori, il tempo narrativo così fortemente antistrutturale, che salta avanti e indietro, è coerente e vicino a ciò che i personaggi ritengono dei loro ricordi, alle emozioni e ai desideri. L’amore e la guerra sono fuori nel mondo, ma anche all’interno di ognuno dei personaggi.
E il percorso di ricostruzione dei fatti del passato da parte del Paziente è il suo tentativo di dare un senso al presente, alla sua vita, alla propria interiorità di fronte alla morte. Come è fuori così è dentro.
Capire il secondo atto dura tutta la vita. So che Picasso, un giorno, dipinse un quadro con pochissimi tratti di pennello. Un giovane che lo aveva osservato al lavoro, pare gli abbia chiesto maliziosamente: “Maestro, quanto ci ha impiegato a fare quel quadro ?” Picasso sorrise: “Quarant’anni”.
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