A cena a casa di amici. Quattro bambini, quattro adulti, un cane. La loro casa sta alle porte della città, la loro via è alle porte della zona industriale. Fuori dal casino e vicini al centro. Ma soprattutto dotati di spazi non facilmente reperibili in città. Terrazzo, giardino, insomma quel genere di cose che fanno dire ai milanesi che però la vita avrebbe tutto un altro senso, che sarebbe tutto diverso se soltanto, che poi per i bambini non ne parliamo.
Intanto che i miei sensi si sdilinquivano nel vino e nel pesce – posso fornire il recapito degli amici in questione dietro lauto compenso – si parlava di tutta la gestione del giardino. La mia invidia per la possibilità di piantare un albero nella terra anziché in un vaso. Il limone che ho ricevuto in dono da Giada dieci anni fa, al mio trentesimo compleanno, e la mia speranza di regalare a questo limone la terra libera in una casa futura.
Poi si scende e si fa un giro di tutto l’edificio. E’ buio, piove ma gli spazi sono riconoscibili e le loro funzioni pure. E questa è la cosa che più mi ha colpito. Perché il punto non è avere tanto spazio. Il punto è che se hai un pensiero per ogni luogo del tuo spazio, ce l’hai anche per ogni punto del tuo tempo. Un progetto, nessuna certezza, ma un progetto, una speranza.
La voce di Mauro non mi conduce nello spazio che si vede, ma in quello che vede lui, nel tempo futuro in cui lo utilizzerà con Lucia, Matilde e Camilla. Il senso è già lì, riempie ogni dettaglio. L’orto che crescerà, la rimessa che si attrezzerà, il box che si allargherà, il laboratorio che si farà. Immagini che non hanno niente a che vedere con il freddo e la pioggia in cui mi sta raccontando le sue idee.
Da tutto questo ricavo un grande senso di armonia, di proporzione. Ad ogni punto dello spazio esterno un punto interno di speranza e di progetto, ad ogni luogo un’idea di futuro. Una specie di saggezza congenita – o forse no ? Forse sviluppata attraverso le sofferenze e la fatica ? – che muove le persone a dire: ci sei tu, ci sono io, c’è questo spazio per noi, c’è questo tempo presente.
Naturalmente penso ai fatti miei, e mi dico che una storia dovrebbe essere scritta e girata nello stesso modo. Con dello spazio intorno dove le cose siano possibili. Dove l’autore si fermi e lasci che sia il pubblico, ogni persona del pubblico diversamente dall’altra, a ritenere per sé quello che crede o che gli serve. I muri costruiti per essere varcati, le porte per essere aperte, le finestre per dare aria e luce. Solide le travi perché sia fluida la vita. Tenersi forte e lasciarsi andare. Calcolare e abbandonarsi. In una storia bisognerebbe poter abitare, sperare e progettare, senza l’autore che ci parli di sé ad ogni passo.
Lucia non era soddisfatta della pastella che avvolgeva i gamberi. Dice che le può venir meglio. Ecco un altro progetto interessante in un punto preciso dello spazio e del tempo: dare modo a Lucia di essere soddisfatta della sua pastella per gamberi. In realtà, portarsi via questa lezione: lo spazio esiste prima che i tuoi personaggi ci entrino. Lo riempiono temporaneamente delle loro passioni, lo polarizzano, lo modificano, lo respirano, prima di lasciarlo. Eppure è difficile scrivere una scena partendo dal mondo fisico che la contiene. Troppo ansiosi di trama, di dialoghi ad effetto, di beat fuzionali al nostro gioco. Rimanere in ascolto dello spazio. Progettarlo. Farci entrare i nostri personaggi, lasciarli andare in giro. E scrivere.
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