“Se la montagna viene a te e tu non sei Maometto scappa: è una frana”.

    La battuta stava sui manifesti di uno spettacolo comico nel paesino ligure nel quale passavamo le vacanze. E per me, che ho un rapporto diciamo complicato con la montagna, la gag era irresistibile. Ma di fronte alla montagna uno che scrive si trova spesso anche se va in vacanza al mare.

    La montagna è… una domanda. Grande, grandissima. Pesante. Che fa di tutto per sembrare insormontabile. E’ un’altra strategia della paura: porre domande non passibili di risposta. Inarrivabili. Lo facciamo rispetto ai nostri personaggi e lo facciamo nella vita quotidiana. Giusto o sbagliato, bene o male, corretto o scorretto. Troppo grande per una persona sola.

    Sono tutta una Scuola, tutta una Chiesa, tutta una morale che ci hanno portati a questo. Alla paralisi da panico e alla piattezza creativa. Il mio personaggio è: così, così e così. Quindi fa: questo, questo e questo. Senza pieghe, senza crepe, senza doppie valenze, senza silenzi divergenti dalle parole che dice.

    Queste domande, ancora una volta, ci riempiono di sensi di colpa. Perché le nostre risposte sono impotenti e inadeguate. Magari nel corso della vita impariamo a rispondere un po’ di più, ma facciamo fatica a chiederci le cose in modo migliore. E’ come se tendessimo a fare sempre le domande assolute e monolitiche dei bambini: ma tizio è buono o cattivo? Ma il Paradiso esiste o no?

    Quando scrivi, la domanda ti capita: in questa situazione, il mio personaggio cosa fa? E’ pesante perché discende da un’altra domanda: il mio personaggio chi è? E’ una frana, che ti travolge e di spazza via, tu con i tuoi progetti di sceneggiatura, ma vale anche per il lavoro di regia, quando parli con un attore del suo personaggio. Chi è. Cosa pensa della vita. Se è un nazista allora… e ne discendono una serie di cose terribili che sono congenitamente associate al nazista.

    Ma la frana di questa domanda, che ci impaurisce e ci blocca, bisogna guardarla con calma. Rimanere fermi intanto che i massi avanzano. Guardarla bene. Perché la frana è fatta di sassi. E i sassi possono essere distinti, separati, risolti. Tagliare la frana con uno sguardo. Non posso rispondere a una domanda troppo grande, ma posso provarci se la domanda è più relativa, meno ambiziosa, più piccola, più contingente. Lo prende questo caffè il mio personaggio? Cosa si aspetta da questo caffè, ora mentre porta la tazzina alla bocca? Momento per momento, lui che cosa vede? 

    Ma nella vita non credo sia diverso. Le domande ciclopiche massacrano le relazioni, e a volte tutto quello che uno può dire è: facciamo una cosa insieme, piuttosto che andiamo a mangiare, piuttosto che riposiamoci un po’. Alle domande, poi, ci hanno insegnato che bisogna rispondere sempre, e che rispondere non lo so ci connota negativamente. L’incertezza è inaccettabile, va a ledere la nostra idea di onnipotenza. Dobbiamo sapere senza cercare, vedercela con domande epocali e spesso mal poste. Questo ci porta a dare essenzialmente risposte false, nelle quali non crediamo nemmeno noi, ma che ci servono ad allontanare la frana illusoriamente.

    I nostri personaggi fanno cose “da film”, sostituibili con altre, e nelle nostre storie si spegne quell’urgenza che deve sempre illuminare, quell’essenzialità che deve toglierci il respiro mentre guardiamo un film. Questo avviene perché non abbiamo la lucidità di cambiare le domande. Di passare da una domanda impossibile (come la evito questa frana?) a tante possibili (come evito questo sasso? Dove appoggio il piede ora? Come mi scanso da quest’altra zolla di terra?) Giorno per giorno, scena per scena, beat per beat. Tagliare la frana con gli occhi. Ricordarle di che cos’è fatta: della nostra paura.

   

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  1. Mi ha stupito la tua ultima frase: la frana è fatta dalla nostra paura. Io non penso che sia così. La paura può essere ombra, come la paura dei bambini, quando si accende la luce scompare. Ma la paura può essere “sassi”, c’è la luce e i sassi sono là, duri e minacciosi e interrompono il nostro cammino. L’unica cosa che ci fa superare la frana è la speranza, convive con la paura, ma è più forte. Non sappiamo cosa c’è al di là della frana, forse lo strapiombo, forse la via che conduce alla vetta, ma la speranza ci spinge a tentare di attraversare la frana, passo dopo passo, pietra dopo pietra. Non so cosa troveremo al di là, ma una cosa è certa: potremo dirci “ho attraversato la frana”.

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