Sono emozionata al pensiero di poter finalmente leggere questa storia, come se mi permettessero di accedere a un luogo inviolato.
Volutamente me ne sono tenuta lontana, ne avevo già letto una scena, sapevo a grandissime linee i contorni della storia, la sfida dell’apnea, i luoghi della Liguria tutt’attorno. Niente di più.
L’ho letta d’un fiato. Tutta, dall’inizio alla fine.
    E’ successa una cosa che non mi aspettavo: ho visto alcune scene.
Non tutte, ma alcune in modo così vivo da sorprendermi.
Non ho dato un volto ai personaggi, non sono riuscita a farmi aiutare dal dettaglio delle descrizioni fisiche se non in qualche situazione, però mi sono accorta di avere la testa popolata da immagini più che da parole.
    Mi sono sentita ora sulla spiaggia a guardare un’ambulanza, ora con la testa sott’acqua, ora di fronte a disegni senza un senso apparente, ora in una cella frigorifera, ora in ginocchio a piangere o in una corsia d’ospedale.
In tensione, dall’inizio alla fine. Senza capire, ma con l’urgenza di arrivare fino all’origine di una paura che sa di antico, ma che è radicata nel presente. Per capire.
    A me, cui piace mettere in fila le cose per leggerle alla luce della chiarezza, il rigore di Giovanni consola. Mi dice che forse si può capire, se si vuole. Forse.
O almeno… in taluni casi si può accedere al senso ultimo della paura, riducendo i gesti del presente e ricollocandoli in prospettiva. Spesso, come scriveva quel tale, ogni cosa è illuminata dalla luce del passato.
    Soffrire perché l’altro non capisce, e agisce in modo totalmente altro da quel che ti darebbe sollievo. Non essere capace di chiedere, per paura forse di non ottenere o forse perché ricevere senza chiedere rende conto della bellezza del capirsi senza dirsi.
E’ doloroso ammettere e dirlo a sé, non è umano chiedersi di farne partecipi altri.
Tutto sembra chiaro a chi sa.
    Tutto appare confuso a chi non sa. Di più, niente appare a chi non sa. E anche segni chiari di una spiegazione vengono disattesi perché non si è pronti a riceverli, non se ne comprende il significato perché nemmeno se ne intuisce l’esistenza.
Eppure basta avere la chiave per aprire il primo portone, per accorgersi di quante porte è disseminata una relazione. A quanti spiragli si è passati di fronte distratti.
Tutto ha un senso, se si comprende che il senso va cercato in ogni azione.
E la Verità si dispiega al vento con asciutta semplicità.
Tutto chiaro.
 
Anna, 28.XI.2007

 

    Cara Anna, grazie per la tua lettura rapida e appassionata della sceneggiatura. Ne parleremo mai davanti a una pizza ? Mai, lo sappiamo bene, ma continuiamo a dircelo così pensiamo che un giorno la vita darà più tempo per tante cose. Sai quanto sia sospettoso quando le cose sono tutte chiare… Ma mi fa molto piacere aver condiviso questa storia. Grazie.

0 risposte

  1. scusate…io avevo già avuto il piacere di leggere una delle prime stesure del film (uno, due anni fa?? non ricordo…) e gio sa che mi era piaciuto molto allora. Chissà ora cosa deve essere dopo tutto questo lavoro ulteriore..solo però che dell’intervento di Anna (è quell’anna???che conosco?) non ho capito un accidente: mi scuso, non sono del mestiere, ma anna..potresti spiegarmelo?? (col sorriso sulle labbra, eh..)

  2. Ciao Gigi,
    non so come si possa spiegare perché m’è venuto di scrivere senza voler fare una recensione. E allora ho scritto di me che leggo, e di me che osservo. Ho letto una storia che si dipana con un ritmo che non so definire, e che solo con il colpo di scena ti fa arrivare a rileggerla al contrario, per trovare le porte di ingresso alla verità. Ho osservato i personaggi nel loro reagire al mondo, a quel che del mondo conoscono e riescono a capire. La prigione di incompresione in cui si reclude Francesca, che soffre per la superficialità di Andrea che sente colpevolmente lontano. La lontananza di Andrea che non capisce il dolore e la rabbia di Francesca, perché non immagina nemmeno quale universo di senso lei attribuisca a ciò che accade. Non si capiscono. Lei forse vorrebbe essere capita senza doversi spiegare, anche perché spiegare è forse troppo doloroso. Lui è troppo lontano per capire senza che gli venga spiegato.
    Beppe che fatica a capire se stesso e i suoi sentimenti, così limpidi per chi lo guardi da fuori.
    Anna che non si rassegna a capire che cosa è accaduto, forse perché la paura del dolore è immensa quanto il dolore stesso.
    Almeno, io l’ho lette così queste storie. Comprendere la paura richiede un enorme sforzo, ma anche avere la consapevolezza di provare paura mette… paura. Dare un nome alla paura può aiutare, da sempre dare un nome alle cose aiuta a comprenderle. Non è però affare banale…

    No, Giò, non penso che sia tutto chiaro. O almeno, non è mai così chiaro nella vita.
    Ma nelle storie che sono costruite in modo geometrico le cause e gli effetti hanno un loro percorso, forse un po’ più lineare di quello della realtà. E questo percorso, se compiuto con coraggio, credo aiuti a far chiarezza. E’ questo che “consola”. Guardare un percorso fatto da altri, anche se in una storia, consola.
    E spinge a pensare alle proprie paure, alle proprie prigioni, alle proprie solitudini.
    A quanto si riesca a dare un nome alle proprie paure, a guardarle. Quale sia la durezza dell’acqua contro cui cerchiamo di lottare, ciascuno a suo modo.

    Sono rimasta su questa immagine della punta per un po’.
    Mi piace, ma non riesco ancora a comprenderla appieno.

    E poi… la storia di Francesca mi pare che funzioni.
    Peccato che quella di Anna si legga poco, in filigrana. Ma sarebbe stato forse troppo.

    Ciao!
    A.

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