Viviamo in un mondo reale che conosciamo appena e in una quantità di universi immaginari che conosciamo alla perfezione. Mi capita di leggere questa considerazione di Declan Donnellan e mi colpisce profondamente. Non finisco mai di capire che non esiste storia se non di qualcuno, non esiste realtà se non configurata da un pensiero, non esiste panorama di valori e di senso se non nel solco del nostro sguardo.

    Forse una storia ben raccontata è in realtà uno stato di coscienza, il mondo ha il senso che noi gli diamo: persone e cose un tempo importanti oggi si rivelano trasparenti, inesistenti. E viceversa. Credo per ognuno di noi.
Non sembra molto incoraggiante: pensare che tutti noi viviamo in un nostro mondo e che ci troviamo su una piattaforma instabile che è quella che ci permette di incontrarci, può farci disperare rispetto alle possibilità di capirci.

    Ma questo, da narratori, ci dice ancora più chiaramente che dobbiamo mollare il nostro sguardo sulle cose. Semplicemente perché è il nostro. Assumere quello dei personaggi, di ognuno di loro. Data la realtà costruita all’esterno, riconfigurarla in sempre nuove scale interne di valori. Per ogni testa un mondo di senso diverso, per ogni cuore un mondo emozionale specifico.
Alla fine ti rendi conto che non esiste storia più altra da te di quella che stai scrivendo. E al tempo stesso più intima.

    Quando giri è uguale, con la stratificazione ulteriore del punto di vista dell’attore, che a volte tende a guardare il personaggio con i propri occhi anziché a guardare il mondo con gli occhi del personaggio. E il discorso non può non estendersi anche all’ultimo livello: l’impatto della storia con il pubblico. Qui ci aveva già pensato Bergman: “La storia che si racconta non è mai la stessa che si ascolta”.

0 risposte

  1. Telepatia?
    Proprio in questi giorni volevo lanciare un ‘seme’ al gruppo di sceneggiatura: la soggettività sensoriale, culturale, filosofica ed emozionale del personaggio.
    Le Breton sostiene che “il mondo è l’emanazione di un corpo che lo penetra” e che la percezione sensoriale, che lui antepone a qualsiasi altro veicolo di conoscenza, è condizionata dalla cultura di appartenenza di ciascuno.
    Il suo “sento, quindi sono” sembrerebbe antitetico rispetto al “penso, dunque sono” di Descartes.
    Un bell’argomento da discutere insieme, non ti pare?
    Nella pratica, penso che potremmo approdare anche ad un vivace scambio di idee sui diversi linguaggi, i loro contenuti e le pulsioni di ogni personaggio delle nostre storie.

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