Ci sono le luci della tangenziale mentre torno a casa. Scorrono più veloci del solito, un regalo che di tanto in tanto fa la pazzia di Milano: la strada vuota verso le otto di sera. Alla radio dicono dei rifiuti di Napoli. Chiama una donna. E’ sarda. La Sardegna si è offerta di smaltire un po’ di rifiuti campani. Lei si dice consenziente, a patto che però si faccia un progetto, che si costruisca una prospettiva che risolva il problema alla radice. Dice proprio così: alla radice.

    Intanto che la ascolto mi sembra del tutto evidente una cosa: la distanza siderale tra questa donna, chi lo sa se in una città di mare o dell’interno, e il cumulo di rifiuti di Napoli. Sento la sua buona volontà, sento la sua sincerità, la vedo interrompere la preparazione della cena e decidere, sì, questa sera di telefonare e di dirla, una cosa. A tutta la Nazione: che lei ci sta. Lei si prende carico dei rifiuti di Napoli. Lei dalla sua Sardegna, si sente italiana e vuole partecipare.

    I lampioni cambiano colore, diventano arancioni poi di nuovo bianchi. Luci a scarica che rendono trasparente tutto il veleno della città e lo fanno sembrare pulito. Un laureato in matematica interviene nella trasmissione: ricercatore, 42 anni. Prende 23.000 euro lordi all’anno. Un barista del bar del Parlamento, dice, ne prende 80.000. Lui sta sui 1.100 netti al mese. Chiede se questo è un paese. E lo vedo, mentre guido, che forse vorrebbe lasciar perdere, troppo intelligente per credere che la sua telefonata servirà a qualcosa, ma che con l’amarezza di chi almeno una volta prima di soccombere vuole farsi sentire, prende il telefono e chiama. E parla alla Nazione. E chiede se questo è un paese.

    Storie. Meravigliose, verissime. Accanto a me, nella mia macchina che torna verso casa. Ai miei allievi oggi ho chiesto di tessere delle story line. Tre sole frasi, il soggetto all’osso. Quasi nessuno di loro si rendeva conto della storia che aveva presentato. Nessuno, credo, abbia sospettato quanto ognuna di queste storie dicesse dell’autore.

    Le storie parlano di noi molto meglio di noi. Ogni volta che qualcuno mi parla di un mio lavoro in realtà mi parla di me. Siamo portatori sani di ferite, feriti portatori di speranze, e le storie svolgono la loro funzione meglio di noi: dicono l’essenziale. Soprattutto, dicono quello che di noi volevamo nascondere. O che proprio non avevamo capito.

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