Ho avuto la fortuna di conoscere personalmente la dottoressa Cristina Cattaneo, dai tempi del suo primo libro, “Morti senza nome”. Allora era stata un’esperienza abbastanza speciale: le vicende, il contesto, tutta un’umanità intorno a noi alla quale si tende a pensare in termini più televisivi che reali. Omicidi, degrado, ma anche semplicemente oblio, solitudine. Storie che finiscono male e che non sentiamo contingenti perché è la fine in assoluto che tendiamo a rimuovere.
In questo secondo libro la mia attenzione si è spostata – o forse anche la scrittura si è evoluta – verso la fermezza del suo sguardo. Veniamo condotti nell’inferno, in un calderone di disagio, orrori e rovine di vario genere e livello, ma sempre essendo accompagnati dalla sua mano che ci guida. E’ di questo che mi interessa parlare. Del fatto che capita di trovare dei “colleghi trasversali” in altri campi e professioni.
La ricerca che in qualche modo caratterizza sempre di più il mio percorso personale e professionale, e cioè il tentativo di mettere a fuoco più che gli eventi la configurazione che ne facciamo dentro di noi, più che le parole il loro risuonare e costituirsi in un senso e in uno sguardo, ha trovato in questo libro un aiuto e un conforto. Perché tanto più se la realtà è estrema, la nostra libertà di configurarla e illuminarla in una lettura ci sembra risicata ed invece si fa fondamentale. E’ proprio davanti alla donna putrefatta nel bagagliaio di un’automobile, nei dettagli più sordidi dell’odore e delle operazioni da compiere vincendo il rigor del suo cadavere che la luce degli occhi diventa decisiva. Le emozioni che proviamo, la lettura che diamo, non dicono molto di ciò che stiamo guardando ma dicono molto del nostro sguardo, e quindi di noi.
In questo caso le parole della dottoressa Cristina Cattaneo ci fanno sentire che non siamo mai abbandonati dalla sua fiducia nella possibilità di cercare un senso. Non nella riuscita tecnica del suo lavoro, che spesso a quanto pare non giunge a fermare i colpevoli né ad assegnare nomi e cognomi a chi muore senza documenti. Fiducia nel fatto che ogni dettaglio macabro possa essere guardato per restituire la vita a se stessa. Che ogni dolore patito prima della morte possa trovare uno spazio per essere raccontato e quindi testimoniato.
Dalle sue parole, che non indulgono mai in lezioni di morale o di etica, dallo sguardo teso e terso che indirizza sulle cose, sentiamo che non è mai troppo tardi per cercare di capire, che la vita non è mai così decomposta e putrefatta da non essere portatrice di memoria e di significato. Sento in queste pagine che le immagini sono messe sotto accusa. Telegiornali, cinema, soap. Pubblicità, televisione. Si può parlare di tutto senza dire nulla, e le parole che usiamo spesso servono più a nascondere che a dire. Si ha la netta percezione che più si guardano servizi di cronaca, più si leggono articoli con mille piccanti dettagli, più si sta andando fuori strada. Disperatamente allontanati dal senso, come dice Cristina Cattaneo, “dell’ultima rivista sfogliata” dalla vittima, e cioè della vita che c’era, “del vero furto” che un omicidio comporta.
Posso dire personalmente che Cristina Cattaneo è una persona entusiasta. Lo è fin dal modo di salutarti. E il suo libro mi conferma una sensazione crescente, che non so dove mi porterà: che abbiamo sempre meno bisogno di cose nuove da guardare e sempre più bisogno di nuovi sguardi sulle cose che viviamo.
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