Dopo molti anni tornerò in montagna. Per usare un eufemismo direi che ho un rapporto difficile con la montagna. Per essere più concreto, non ho nessun rapporto con superfici non piane. Ma ci tornerò, la neve alta è un’esperienza che se si può si deve offrire a due bambini che non l’hanno quasi mai vista.
Tutto questo mi riporta al 1974. Credo, o il 1974 o il 1975. Avevo sei o sette anni. Cortina. A me fu offerta la stessa esperienza. E mi misi ai piedi un paio di sci. Dopo qualche metro li ricordo incrociarsi davanti a me, e sento ancora il mio corpo cadere in avanti ma rimanere sospeso per l’incastro degli scarponi e degli sci stessi. Tutto il peso sul mio ginocchio sinistro.
Più che il male fu lo choc di capire per la prima volta che cosa significasse una situazione senza uscita. O ti aiuta qualcuno o te ne stai lì in attesa di decesso, vittima degli scarponi e degli sci che ti sei liberamente messo tu e che ora ti paralizzano: c’è da fare anni di analisi per uscirne.
Di sera fui visitato da una giovane infermiera. Una ragazza dolcissima, che mi prescrisse qualche giorno di riposo per il ginocchio. Credo da allora di non aver mai più messo gli sci. Sto ancora rispettando il riposo del ginocchio. L’infermiera si chiamava Emanuela. Credo facesse più finta di guardare il mio ginocchio, anche se ricordo che lo accarezzava e che sorrideva, dando importanza “da malato vero” a quel bambino.
Qualche anno dopo sapevo pescare meglio, ero autonomo sugli scogli, mi cambiavo ami esche e piombi da solo. E nessuno mi avrebbe mai più riportato in montagna nemmeno con il pensiero. Ma la sera del 3 settembre 1982 Emanuela tornò nella mia vita, e in quella di tutti gli italiani. Sì… era lei.
“Il 3 settembre 1982, verso le ore 21.00 circa nella via Isidoro Carini, il nuovo Prefetto di Palermo, DALLA CHIESA Carlo Alberto che procedeva a bordo di una autovettura A 112, alla cui guida si trovava la moglie SETTI CARRARO Emanuela, nonché l’agente della Polizia di Stato, RUSSO Domenico che, scortando il Prefetto, conduceva un’autovettura Alfetta, venivano attaccati ed “investiti -per dirla col Giudice della Corte di Assise di Palermo del primo maxi processo- da una pioggia di piombo che cagionava la morte dei tre maciullandone ferocemente e svisandone quasi del tutto i lineamenti del viso”. (Dalla sentenza del 2/3/2002 della Corte di Assise di Palermo)
Tra poco tornerò in montagna. E mi ricorderò di lei.
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