Via dei Missaglia, periferia di Milano sud. Primo pomeriggio. Zero gradi. Vado in auto verso la fermata della metropolitana che mi farà attraversare tutta la città. Quando ho un bel libro per le mani faccio così, perché guadagno venti minuti di lettura ad andare e venti a tornare. Mi ci immergo e ne esco alla fermata dovuta. Cerco parcheggio. E lo vedo lì, alla fermata del 15. Mi fa compassione perché è anziano e se ne sta lì in piedi immobile, congelato.

I minuti d’attesa sono dilatati e appiattiti dalla temperatura.  Il semaforo sta per diventare rosso e mi fermo. E ho tempo per rimanere a guardarlo. L’uomo posa la borsa marrone per terra e si toglie il cappello simil Borsalino. Alza le braccia e respira. Non ci voglio credere. Gonfia la bocca per l’espirazione. Poi… mette le braccia avanti parallele e si piega sulle ginocchia. Ginnastica ragazzi! Ginnastica! Alla fermata del tram, alla sua età! Un genio.

Riparto mentre lui va avanti con i piegamenti. Un modo geniale per combattere il freddo e l’attesa dei mezzi nella città più sopravvalutata d’Europa. Gli italiani sono fenomenali almeno in questo. Si arrangiano sempre. Le pensano tutte. Mi vengono in mente i parametri di normalità. Gli elementi di cui si compone una storia che valga la pena di essere raccontata.

DOVE. Alla fermata. CHI. Un anziano. QUANDO. Nel primo pomeriggio. COSA FA. Aspetta il tram. Questa è la scena di base. Quella normale: azioni appropriate  in luoghi appropriati in tempi appropriati. Alla fermata un anziano nel primo pomeriggio fa ginnastica. La variabile rende il quadro suggestivo. Una sola, ma impazzita. Muove domande: come mai, in che modo ecc. E mi vengono in mente altre impostazioni possibili. Alcune estremamente comiche. Basta provare a farlo con le situazioni della nostra vita. O alle grandi immagini che abbiamo in memoria.

Gesù camminava in pieno giorno per strada. E’ una cosa. Gesù camminava in pieno giorno sull’acqua. E’ l’idea che lo rende immortale, è la ginnastica alla fermata. La questione è abbastanza semplice se i parametri sono questi. Ma… se fossero parametri relazionali? Avremmo scene meno banali e forse più vere. La normalità dei nostri racconti e dei nostri film nasce proprio dai nessi automatici che istituiamo. Non ci chiediamo abbastanza quale possa essere la variabile decisiva, lo scarto.

Non perché sia necessario raccontare sempre qualcosa di originale. Ma perché quel che rende interessante un racconto è sempre un elemento che fa la differenza. La differenza rispetto a quello che ci aspetteremmo. Che rende la storia meritevole di essere raccontata, il mondo più ricco di sfumature e i personaggi più misteriosi e interessanti. Farci la sensibilità per ciò che fa la differenza. Perché la differenza qualifica e specifica l’identità.

Amare la differenza. Cercarla. Amplificarla. Usarla come specchio di quello che siamo, come confronto. Cercarla con metodo e costanza in ogni elemento: dove, chi, cosa, quando. Scrivere la scena di lui che si dichiara a lei al bar e spostarla in sala operatoria, attraversando a piedi l’autostrada, nella cella frigorifera di una macelleria. Oppure tenerli nel bar a lume di candela e variare il tema della conversazione. Al lume di candela con musica soffusa… lui le parla dei problemi allo spinterogeno e lei trova la cosa terribilmente interessante. Chi cavolo saranno questi due?

Arrivo e scendo. E penso ancora al signore che fa ginnastica. Scuola di scrittura vera. L’elemento che fa la differenza.

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