Chiacchiero con Marilena mentre prepariamo l’organizzazione dei cortometraggi che tra poco gireremo con gli allievi della Paolo Grassi. E si pone un quesito: come se ne esce quando chi sta scrivendo un film non riesce a fare a meno di giudicare un suo personaggio? Quando non riesce a uscire dal loop dei rimandi a se stesso e delle valutazioni ideologiche e morali? Come si fa a raccontare un personaggio con amore senza che il nostro giudizio interferisca con la storia ?
Per me, quando la crisi è così centrale, rimangono intatti alcuni riferimenti. Che sono quelli che valgono anche nella mia vita. Cerco di ricollegarmi al nesso che lega le azioni. A ciò che le tiene insieme. E penso che le azioni siano mosse dai desideri. E che i desideri siano espressioni di dolore per ciò che ci manca. Perciò ogni azione per me deriva dal dolore. Nessuna esclusa. Nemmeno ridere.
Non è una visione pessimistica, per quanto mi riguarda. Anzi, è liberatoria. In qualche modo ci libera dalla falsa idea che compiamo azioni perché le riteniamo buone o cattive, o perché le condividiamo idealmente o tutto il contrario. Compiamo azioni perché abbiamo la necessità di compierle. La necessità non è né buona né cattiva. E’ necessaria e basta.
Si tratta di capire come si può individuare la necessità in una storia. Non che possa considerarsi una ricetta, ma per me vale come principio: la necessità di ogni azione è data dal nesso che c’è tra la ferita profonda di un personaggio e la pressione dell’ostacolo contro di lui. Sappiamo tutti che essere licenziati è una cosa terribile. Perciò ci è del tutto evidente e comprensibile il dolore di un operaio licenziato. Ma dentro di noi sappiamo che due operai licenziati non reagirebbero allo stesso modo.
Questo non è perché ognuno di noi ha un carattere diverso. Questo è perché la pressione degli ostacoli su di noi incide sulle nostre specifiche, uniche, irripetibili ferite. Che sono quelle che la nostra vita e la nostra cultura ci hanno dato.
In questi pochissimi anni di insegnamento alla Paolo Grassi e alla Civica di Cinema – e forse soprattutto allo IED – ho visto nei ragazzi tutta l’assenza di ogni discorso spirituale. La cosa non mi sorprende data la pochezza della proposta nella nostra parte del mondo. Ma il paradosso è che ho visto penetrare i vizi di una cultura bigotta anche nei ragazzi apparentemente più laici. Ho visto queste tracce e le vedo anche nella nostra laicissima televisione.
E il punto è proprio questo: si giudicano i comportamenti anziché sondarne con amore le ragioni. La nostra Chiesa, insomma. Ma anche la nostra televisione. Anche i ragazzi. Questo è un meccanismo che distrugge la nostra capacità di capire l’altro e di raccontare. Per un motivo molto semplice: quando giudico un comportamento – che io lo sappia o no – lo sto semplicemente rapportando ad una mia personale idea di bene e di male, di giusto e di sbagliato. In altre parole: sto smettendo di parlare del mio personaggio e sto iniziando a parlare di me.
Penso che questo sia il problema sottostante ad una serie di disfunzioni nella comunicazione. Non siamo più capaci di non parlare di noi. Dobbiamo sempre dire cosa pensiamo delle cose. Lo diciamo anche quando non ce ne rendiamo conto. Invece raccontare è guardare con stupore il nesso che c’è tra il dolore di una mancanza e l’azione autentica che il personaggio compie per ripararla. E’ contemplare l’uomo nella sua infinita lotta per vivere e sopravvivere.
Recuperare il contatto con se stessi. Fare a meno delle nostre opinioni. Osservare con semplicità il dolore sottostante le azioni di ogni giorno.
Non potevo non commentare un post presentato da globuli rossi! Sangue vero. Parli dell’indole, di quella autentica, incontaminata? Uno dei “disegnini” che hai fatto durante il primo incontro con noi mi è rimasto impresso, ci penso spesso: la forchetta. Lo spazio che separa la vita com’è dalla vita che vorremmo. Spesso un abisso. Penso siano rari, o comunque brevi , i momenti nella vita in cui i rebbi si sovrappongono. O forse siamo troppo perfezionisti. Ma se ogni azione cela, e neanche tanto, a monte una necessità, un dolore (condivido in toto), il parametro cui rifarsi è sempre la mancanza? Se il cinema racconta azioni, e la nostra vita è azione, la vita stessa, già di per sé miracolo biologico e lotta continua ed estenuante, scaturisce dalla mancanza, dalla carenza, dal dolore? Penso che non lo sapremo mai. Intanto, provare a guardare il mondo e gli altri con curiosità semplice, ricercando il nesso, è cosa difficilissima a causa dei macigni che pesano sul nostro modo di osservare: i pregiudizi, la pigrizia di vedere oltre, la paura. Ma a riuscirci, sarebbe tutto più luminoso.