
Bisogna suonare il campanello di una porta a vetro smerigliato. Fanno passare molto tempo prima di aprire. E non è lo scatto automatico ma una persona che compare e dà due giri di chiave. Bisogna dire per chi si è lì. Nome e cognome del morto. Poi c’è un corridoio lungo il quale l’uomo mi conduce con i suoi pochi capelli bianchi e il suo passo tranquillo. Mi apre la porta e mi dice che mi accompagna lui perché ce ne sono altri quattro. Altri quattro cadaveri sotto il lenzuolo.
La zia è piccola piccola vista così. Marmorizzata sotto la luce al neon e ingiallita dal sangue che si è fermato. I suoi capelli ribelli ancora un po’ in giro e il blocco sotto il mento perché non apra la bocca. Messa in un angolo come una cosa che non si può dire, coperta da un lenzuolo come se della morte bisognasse avere vergogna. Invece è rispetto, pare. Ma rispetto per chi? La zia ha una faccia che non deve essere coperta per meritare rispetto. La si può guardare e ci si può vedere la sua vita fatta di studio e di passione intellettuale per la filosofia, per la politica. E anche fatta di amore per la musica.
Che cosa vedi ora? Dove sei? E’ quello in cui hai creduto per tutta la vita? Sì? C’è un Padre di là e tutti quelli che hai conosciuto? Questa famosa comunione dei santi di cui parlavi? Deve per forza passare da questo angolo di neon e aria condizionata, da questi lenzuoli e da questo mazzetto di rose appoggiato sulla salma di fronte alla tua?
Mi faccio queste domande ma sono quello che sono e non posso fare a meno di guardare il mio modo di guardare anche in questo caso estremo. Perché tutta questa scatola l’abbiamo costruita noi. I muri nudi, lo squallore del ferro delle lettighe e delle serrature che rullano, il deposito provvisorio di cadaveri finché non se li vengono a prendere. Ma è il mio sguardo, non quello che vedo. Quello che vedo è qualcosa di naturale, una persona anziana che ha compiuto il suo percorso con pienezza e che adesso non può più stare qui.
Naturale e silenzioso. Ma non siamo, non sono abituato molto né alla natura né al silenzio. La durezza del congedo, la chiamavi tu. E’ anche durezza del corpo, bloccato nella fine di tutte le cose. Preferisco portarmi dentro questo dubbio. E’ più sincero e più vicino a quello che sento. Non so dove tu sia. Sempre che la morte non sia morte, come credevi tu, non so cos’altro sia.
Anche Samuele vuole venire a salutare. Non gli è facile entrare. Non gli è facile sapere gli altri corpi sotto i lenzuoli. Ma è un suo desiderio. Abbraccia Giada e mi tiene la mano. Poi c’è la nonna, dolcemente silenziosa come a dire va tutto bene, è tutto giusto così. E’ il primo incontro di Samuele con la morte e non è mai facile. Il lenzuolo si alza e tutto avviene con una grande semplicità. La osserva e non dice niente. Sono sempre stupito dalla profondità delle sue emozioni e ancor più dall’equilbrio che mostra man mano che cresce.
Sulla via del ritorno lo guardo e con il sole che gioca sul suo profilo mi sembra ancora più bello. Samu è la vita che si muove e si trasforma, è un respiro pieno di futuro. Una prima media che comincia, nuovi compagni, nuove idee, cambio orizzonte. La durezza del congedo. Un po’, il sospetto che questa fede nell’aldilà sia un vaccino contro il dolore ce l’ho. Che sia un modo per trovare accettabile l’inaccettabile.
La zia ora sa. Se qualcosa è, ora sa. O forse sta iniziando a sapere, se è vero che anche di là è tutto un cammino che comincia. Non posso condividere una fede così certa. Posso al massimo condividere una speranza. E mi porto via questo pensiero: che una civiltà la si può interpretare anche a partire da come illumina i suoi morti. Noi lo facciamo con il neon, li nascondiamo sotto il lenzuolo e lo chiamiamo rispetto. Non dice della morte, questo squallore. Dice di noi. Esco e non so perché guardo in alto. Ma non il cielo. Guardo il cornicione dell’obitorio e poi i palazzi di fronte, quelli antichi. Quelli che erano la sua amata Milano. E sento che le parole magari si sanno a memoria ma ogni tanto le ripete anche lo stomaco. Sic… omnia… transit.
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