Siamo lì che parliamo di lavoro, nella trattoria non c’è più nessuno tranne due ragazze al tavolo in fianco. La mia interlocutrice riceve una telefonata. Di quelle insistenti. Fa smorfie, ammicca, la telefonata non sembra molto gradita, ma insomma tant’è. Non si dovrebbe origliare ma il discorso delle due ragazze del tavolo accanto mi intriga. Una delle due si sente un bersaglio. Né la mamma né il papà né il compagno fanno qualcosa per lei. Anzi, sembra che tutti le sparino addosso. Una congiura,  un disastro.

        Tra me e me penso che personaggi così siano meravigliosi. Reggono mondi pesantissimi sulle loro spalle, e i racconti che fanno della propria vita sono sempre epici e disperati, e la realtà ha una singolare proprietà: ruota tutta intorno a loro. E ce l’ha con loro. Inutile attendersi una ricostruzione di punti di vista diversi, che ne so magari il padre… la madre… il compagno… Anzi più la ragazza affonda nelle pieghe della vicenda, più risulta incomprensibile come una banda di psicopatici malintenzionati si sia raggrumata intorno a lei. La sua voce è secca e tagliente e spara insulti come fa la pigna con i pinoli appena tocca terra.

        E poi c’è questo termine: un bersaglio. Mi sento un bersaglio. Penso tra me – intanto che la mia commensale manifesta crescente insofferenza per la telefonata e si avvoltola in una conversazione che somiglia sempre più a un boa costrictor – penso, dicevo, che il bersaglio abbia la caratteristica di essere passivo. E’ il centro dell’azione di chi tira ma non produce nessuna azione. E penso che quel drive non sia mai favorevole al racconto di una storia. Perché vede da una parte sola. E non può fare nulla.

       Il bambino racconta così. Il bambino cammina per la strada e  quello che vede lo vede attorno a sé nella convinzione di essere al centro di tutto quel che accade. Tutto è rivolto a lui, tutto fa riferimento a lui. Da un adulto ci aspettiamo uno sguardo polimorfo, capace cioè di cogliere la molteplicità dei moventi e degli sguardi. Invece la ragazza tira dritto in modo sempre meno credibile. Anzi, a un certo punto solidarizzavo con il povero compagno che secondo me è in odore di santità o giù di lì.

       Eppure questi personaggi sono affascinanti. Sembrano usciti da una tragedia greca, li vedo stagliarsi come gli eroi dei film bellici, Bruce Willis di Porta Romana, Silvester Stallone di viale Sabotino. In realtà l’unica cosa che esce chiara dai loro racconti è che non si rendono conto, direbbe Bruner, della struttura reale dell’evento di cui hanno fatto parte. Perché lo riconformano sistematicamente a partire dal fatto che loro ne sono il centro e – in quanto centrale – il loro punto di vista non contempla l’esistenza di quello altrui.

       Questo tipo di narratore dice di sé molto di più di quanto le sue parole non dicano della storia che sta raccontando. Dice tutto quello che non riesce a vedere e a sentire. Un’altra volta mi viene incontro l’evidenza che raccontare è innanzitutto ascoltare. Portare con sé. Esprimere il giro che il tutto ha compiuto dentro di noi. E’ restituire. Riorganizzare. Ricostruire nessi. Ed essere pronti a riceverne. E’ una grande infelicità questo ego. Credo che ognuno di noi ne abbia una fabbrica personale che funziona più o meno a pieno ritmo. Una fabbrica di muri che riduce la rotondità e la forza delle nostre storie, di quelle che viviamo e di quelle che raccontiamo.

       Un allievo proprio l’altro giorno mi obbiettava che raccontare è esprimere il proprio punto di vista, non quello degli altri. Ha ragione. Ma il punto di vista è – alla lettera – il punto da cui vedi. Non il punto da cui parli. Ci torneremo su…

       

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