Ancora sul problema della compressione del tempo diegetico in un tempo narrativo. Qualche giorno fa si parlava con degli amici della percezione del tempo nei grandi maestri come Kurosawa, Dreyer, Tarkovsky e via dicendo. Un tempo quasi non scandito dai fatti. Dilatato e infinitamente presente. E per la prima volta, dopo anni che pensavo che quello fosse il modo proprio degli angeli di raccontare il tempo, ho capito che senza essermene accorto ho cambiato idea.

    Amo immensamente tutti i maestri che ho nominato, e anche il loro modo di non comprimere, di lasciare dei vuoti siderali. Sono esperienze meravigliose, come l’attraversamento sospeso fuori dall’astronave di “2001 Odissea nello Spazio”, per intenderci. E detesto accorgermi di quanto la televisione abbia modificato il cinema, con il suo ritmo fine a se stesso, privo di densità. Però.

    La vita di oggi bisogna raccontarla alle persone di oggi. Che fruiscono di modi e di tempi che sono quelli di oggi. Ci sono cose che non cambiano, come il senso più alto, più profondo di ogni gesto. Il nostro desiderio di coglierlo al di là del contesto, il nostro bisogno di dare senso alle cose. Tutto ciò che si dà, insomma, nella lentezza. Ma comunicare oggi questo tempo interiore che si può dilatare, è cosa da fare attraverso le sgrinfie della velocità. Gli eventi sono rapidi, il senso si traccia attraverso lunghissime e sospese arcate.

    Il compito è più difficile adesso. Bisogna stare su due binari, credo. Uno ritmico, che tiene lì anche un adolescente che rigurgita pessimo rock nel suo i-pod, uno immobile, che segna il Tempo al di là del ritmo con cui è scandito. E il Tempo è senso, meditata consapevolezza. E’ nesso profondo tra un fatto e l’altro del film che si scrive. Nesso che si offre ma non si impone, né nella sostanza né nei modi.

    Del resto la vita credo sia così. Noi non viviamo sul K2. Siamo qui, tra i semafori. E cerchiamo un senso a questo. Prede degli appuntamenti, cerchiamo un Tempo per noi, scolpito, pieno di significato. Allora credo… se scrivendo lavorassimo molto sulla velocità ma obbligandoci a ponti meditati e profondi tra gli eventi….  

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  1. “C’è oggi un radicale sospetto nei confronti di chiunque dichiari di insegnare, a meno che non venga dall’oriente, o sia in possesso di qualche strana dottrina “new age”. I missionari che insegnano vengono sospettati di indottrinamento, di imperialismo culturale, di arroganza. Chi siamo noi per dire a chiunque ciò in cui dovrebbe credere? Insegnare che Gesù è Dio è visto come indottrinamento, mentre invece insegnare che Dio è un fungo sacro fa parte del variegato arazzo delle tradizioni umane! In ogni caso la nostra società è profondamente scettica verso ogni proclama di verità. Viviamo a Disneyland, dove la verità può essere reinventata a piacimento. Nell’era virtuale la verità è quello che si fa apparire sullo schermo del proprio computer…”
    (Timothy Radcliffe Superiore generale dei domenicani)

  2. Quello che dobbiamo riscoprire è la disciplina del silenzio; non un assoluto, ininterrotto mutismo, ma la disciplina del lasciar perdere il nostro facile chiachiericcio sull’evangelo, in modo che le nostre parole possano provenire ancora da una nuova e dibersa profondità o forza, da qualcosa che sta al di là delle nostre fantasie.
    Rowan Williams

  3. Un indio Guarani siede sulla riva del Parana. Passa un viandante e gli chiede:” Che fai?” E quello risponde:”Devo andare in Brasile.” “Ma se non c’è il ponte!” “Lo costruiranno”.

    Assolata pampa argentina. Sotto un ombù un gaucho sosta sul suo cavallo. Il mento verso il petto. Lentamente si avvicina un altro gaucho, fa fermare il cavallo e gli chiede:”Che cosa stai facendo?” “Sto riposando.” Ci pensa e poi:”Posso aiutarti?”

    Caro Giovanni, tu scrivi in termini di tempo diegenetico e io ti racconto del mio choc da europea quando mi sono confrontata con il ‘tempo sudamericano’.

    Mi sembra giusto che tu sappia per tempo che bestia avrai come allieva. Sei preparato.

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