In casa mia, sono quello delle luci. Entro e con un riflesso automatico abbasso quasi a zero le quattro alogene simmetriche che costituiscono la diffusa del soggiorno – cucina, e accendo la lampada che arriva bassa sul tavolo su cui mangiamo, beviamo il caffè, studiamo… Naturalmente sono quello delle luci nel senso che quando entro pare che in casa non si veda più nulla. L’altra mattina, sotto la potente nevicata, Francesca si mette al suo tavolino a disegnare. E’ decisamente al buio, e le propongo di accenderle la luce. Quella che arriva da fuori è quasi zero, e quel punto è anche più scuro.
Alla mia richiesta Francesca mi ferma: – No, c’è un buio adatto per vedere bene.
Che meraviglia questo buio adatto per vedere bene. E’ come un silenzio adatto per ascoltare. Ho voluto le luci di casa in questo modo proprio perché avendo uno spazio senza muri ho sentito il bisogno di tagliarlo, di definirlo con la luce. Ma soprattutto perché essendo le persone più importanti delle cose, le ho pensate illuminate da una luce vicina, stagliate su un fondo in penombra. Quando sono sedute a tavola, le persone sono attorno a quel che stanno per mangiare, che sarà la loro forza di domani, e mentre mangiano si scambiano le idee di oggi, che sono l’esperienza del giorno che è trascorso. Passato e futuro si rincorrono nei volti e nei corpi, nelle parole e nel cibo di chi si siede a quel tavolo e che rappresenta il presente.
La luce deve dire anche attraverso il buio e la penombra. Di solito quando si sente dire una casa con una luce stupenda alla fine si capisce che per stupenda si intendeva semplicemente tanta. Invece Francesca… mi ha offerto una sintesi precisa di quello che cerco: un buio adatto per vedere bene. La de-finizione delle persone e delle cose, che nel corso del tempo è sempre ri-de-finizione, ad opera delle parole e delle immagini. In questo caso della luce. Perché ogni persona che ci sta di fronte, nel momento in cui la guardiamo è anche un’immagine.
Un silenzio adatto per sentire bene, un’assenza adatta per toccare davvero, una morte adatta per cogliere meglio la vita, un dolore adatto a far spazio alla nostra capacità di essere felici. Nella mia vita ci sono alcuni testi che sono stati e sono dei fondamenti. Per un teatro povero di Jerzy Grotowski, La notte oscura di Giovanni della Croce. Mistici, anche nel senso più laico. Gente che ha sottratto molto più che aggiunto, cercato di capire molto più che spiegato, cancellato molto più che scritto. Gente di pochi riflettori e di molta – e adatta… – luce.
Francesca continua il suo disegno, indifferente al fatto che io le abbia alzato la luce. Penso alle personalità che non siamo e che ci portiamo in giro, penso alla confusione tra tanta luce e bella luce, penso all’irrimediabile convinzione diffusa che la luce sia una questione estetica. Penso al ridefinirsi millimetrico di quello che siamo, che diventiamo e ricordiamo. Troppe suggestioni tutte insieme. Una confusione. Adatta a vivere…
ciao Gio,
certo che la tua Francesca è grande! mi piace proprio il suo modo di vedere…
La frase di Francesca mi ha fatto pensare ad un grande pittore (e non solo), Leonardo Da Vinci. Si, perché è stato il primo ad intuire che non è la luce a rivelare i segreti di un volto, ma la penombra. La luce staglia contorni netti, nel disegno si traduce in linee nitide e precise che esaltano i tratti somatici. Nella penombra le linee si sfumano ed emerge la profondità di uno sguardo, l’ineffabile dolcezza di un sorriso appena accennato, indefinito e misterioso. Nella sua piccola esperienza di disegnatrice Francesca ha intuito che quel buio era adatto a farle vedere ciò che voleva vedere: il resto è superfluo. Bellissimo, nel mondo di oggi, capire che tanto è superfluo, che la poesia dell’essenziale la scopriamo nel silenzio dei suoni e nella sobrietà della luce.