La mia prima lezione sulla creatività la ricevetti da ragazzo. Una professoressa mi disse: ricordati che creatività è l’anagramma di cattiveria. Sul momento mi sembrava una semplice gag, invece il tempo mi avrebbe insegnato che conteneva tutto un modo di pensare la creatività.

Negli anni successivi mi sarei sentito dire che creatività è colpire al cuore, tirare un pugno nello stomaco, bucare lo schermo, lasciare un segno, essere incisivi e molto altro ancora. Tutte espressioni che hanno molto più a che fare con un sistema di riferimento bellico che con un evento vitale. In più c’era quest’aria diffusa per cui un autore doveva essere incazzato. Se non eri incazzato non sapevi di niente.

Molti anni dopo mi trovavo in un’agenzia di pubblicità, nella quale tentavo la strada del copywriter. Povera agenzia e povero me. Una mattina, i miei colleghi creativi e io, trovammo una mail mandata urbi et orbi dal Direttore Creativo. In questa mail ci si spiegava il significato profondo della parola creatività. “Il senso della creatività risiede nelle due parole che la compongono: creati – vità. Cioè: creati una vita con l’accento”. Credo volesse dirci qualcosa sul vivere a occhi spalancati, sul non accettare la banalità, sul navigare sempre la cresta dell’onda.

Questa seconda lezione mi ha spiegato la prima. La creatività era davvero l’anagramma di cattiveria e il Direttore Creativo era il più cattivo di tutti!

Di per sé in queste indicazioni non c’era niente di particolarmente sbagliato. Ma nemmeno qualcosa di particolarmente utile al nostro rapporto con la creatività. Nel primo caso c’era la scuola dell’affermazione nel mondo. La creatività doveva colpire a tutti i costi. Quindi la creatività non era colta nel suo processo ma nel suo possibile esito. Nel secondo caso sembrava connessa a uno stile di vita emozionante e più o meno glamour. Ma ancora una volta per me non c’era niente di utile a capire come funzionasse la mia profondità e come avrei potuto connettermici.

Ci sono voluti ancora un po’ di anni perché iniziasse per me un rapporto vero e profondo con la mia creatività e con la creatività in generale. Un percorso fatto di scoperte semplici ma che non è stato semplice mettere in fila per il verso “giusto” – sempre che ce ne sia uno.

La prima delle scoperte semplici è che da una donna possono nascere un maschio o una femmina, un figlio solo o più figli insieme. E’ più difficile che nasca un pappagallo. Se la creatività ha a che vedere con la nostra capacità di mettere al mondo, la natura ci è maestra: l’albicocco fa albicocche. Ci siamo noi in quello che scriviamo, che giriamo, che montiamo. Una donna è presente nella sua gravidanza con tutte le proprie viscere. Minuto per minuto per ogni giorno dei nove mesi. E poi mette al mondo un essere che è altro da lei ma che ha molto di lei, che la rispecchia e che se ne differenzia. Arrivare a quel momento, al parto, è stato un cammino che ha richiesto tempo. E una serie di passaggi complessi.

Il viaggio dell’Eroe verso se stesso è un viaggio di ritorno. E quindi è da qui che parte perché è qui che ritorna: a se stesso. La cosa può essere una buona notizia ma anche no, dipende da che tipo di luogo è quel se stesso. Se è un luogo d’amore, di pienezza e di luce o un luogo di paura, di doppi fondi, di baratri. Per fare un viaggio bisogna averne voglia e non abbiamo mai voglia di entrare nella stanza più disordinata e sporca della casa. Insomma, dipende da com’è questa stanza interna in cui abita il nostro se stesso. Ecco. Questo non me l’avevano spiegato né professori né direttori creativi: la creatività è un atto di sconsiderato amore e di coraggio. Sei tu che metti al mondo tutto quello che è venuto al mondo con te. Che tu lo conosca o no. Che ti piaccia o no. Che abbia successo o no. (….)

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