Ho visto con il mio cronico ritardo il primo film di Kim Rossi Stuart. Ne avevo sentito parlare come di un esordio discreto, come di un buon film che poteva tutt’al più lasciar ben sperare per il futuro. Ma la sensazione che mi ha lasciato, invece, è molto diversa.   

          Si tratta di capire cosa si chiede a un film, cosa si spera di trovare in una storia. “Anche libero va bene” fotografa perfettamente una distanza tutta europea dal cinema americano. Senza tagliare a fette grossolane una situazione che in realtà è molto più specifica e differenziata, questa non è una storia di personaggi “da film” ma una storia che racconta persone vere.   

            Per vere intendo con un centro di sofferenza interiore con il quale ognuno di noi fa i conti come può e come riesce. Intendo senza un’idea di come dovrebbe andare il mondo ma con un atteggiamento pieno di ascolto per come va in concreto. E certo, quando scegli di raccontare la vita come fluisce veramente e non iperboliche gesta o scandali o mostri, devi fare i conti con strutture narrative più sottili, perché la spesa al supermercato difficilmente riserva una scarica di adrenalina come lo sgusciare di Alien dal petto di un uomo.   

            Va da sé che l’evidenza esteriore del personaggio americano nel nostro cinema debba trovare un corrispettivo nelle risonanze interiori. Questo rappresenta spesso una difficoltà per noi. Interiori lo siamo anche troppo, e spesso avari di fatti che conducano l’azione, che ti tengano lì a guardare. Forse “Anche libero va bene” ha qualche limite di ritmo, l’esordio del primo atto è faticoso anche visivamente. Ma nel corso della storia si riprende con gli interessi fino a diventare a tratti toccante e bellissimo. Il profilo dei personaggi, dei due genitori e dei due giovanissimi figli, non è mai banale, mai facile. C’è intensità nella scrittura e verità nella recitazione.

                Lo scorrere della vita quotidiana di una famiglia difficile, con una madre che non riesce a tenere il proprio corpo dove lo vorrebbe il cuore, di un bambino che ha capito prima di suo padre certi meccanismi del disamore, della distanza e della paura, di una ragazzina all’inizio dell’età veloce dell’adolescenza, che cerca di guardare con lucidità una situazione che la sovrasta, con un modello femminile di riferimento già usurato e deludente. Un padre, Kim Rossi Stuart, che proprio non riesce a venire a capo del suo senso di inferiorità che lo porta a confliggere con il mondo intero, a chiudersi in un’infantile difesa del proprio io anche quando nessuno lo attacca.

            Apparentemente un quadro da spararsi, invece il film si muove con grande attenzione sulla concretezza delle piccole cose. Gli abbracci non sono accompagnati da struggenti colonne sonore, i litigi non sono sostenuti da montaggi frenetici. C’è qualcosa di neorealista in questo modo di guardare. Qualcosa che, confesso, mi piace moltissimo perché è come se mi ripulisse lo sguardo dalla fiumana di cose girate in onore della camera e del tavolo di montaggio che si vedono abitualmente.

            “Anche libero va bene” ci tiene per mano di fronte all’inferno della famiglia mettendo in atto nei nostri confronti quell’amore che manca in ciò che ci mostra. Ci accompagna nel nostro mondo, fatto di famiglie nelle quali gli adulti non crescono, e i bambini devono farlo più in fretta. Guarda con tenerezza e forza un mondo che ha pochissima tenerezza e nessuna forza.

    E, come ogni volta in cui lo sguardo è efficace e sincero, anche se la situazione non ci riguarda personalmente sentiamo che qualcosa ci guarda dentro, ci tocca, ci fa condividere emozioni profonde che fanno parte di altre vite, e ci ricorda che non siamo fatti di sola adrenalina e di ritmo, ma anche di silenzi, di respiri e di tempo.

 

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