Questi siamo noi. Alla fine uno pensa che sia questo il cinema che possiamo e che forse dobbiamo veramente fare. Lavorare quasi soltanto con dei non attori che interpretino quasi soltanto se stessi. Siamo stati i migliori del mondo a farlo, e verosimilmente con Matteo Garrone siamo tornati ad esserlo almeno per una volta.  Tutti hanno parlato di neorealismo e di ritorno alle origini, e in effetti è difficile non pensarlo.

       Ma nel film c’è di più. Perché quel che è cambiato, che è stato rivisto dal di dentro, è tra le altre cose la relazione tra la macchina e la realtà che ci mostra. Non assistiamo alla verità che si dipana di fronte a noi in campo medio, ma siamo condotti scena per scena con passo felpato e felino, da una macchina circospetta e indagatrice, piani sequenza a mano quasi sempre stretti, molto controllati. Sentiamo di essere intrusi e privilegiati in una realtà che se noi non fossimo lì andrebbe comunque avanti, che non è stata preparata per noi.

       Siamo coinvolti perché la storia siamo noi, quelli siamo noi, il nostro tempo è questo. Non è pensabile non farne parte e la macchina di Garrone ci costringe alla vicinanza con tutta la bruttezza e la violenza. Il fatto è che nel film non c’è alcuna emotività. Nessuna sceneggiata all’italiana, nessuna concessione al pathos, la morte dei due ragazzini è quasi buttata via. E tutto questo sorprende e funziona a meraviglia. Perché ci rendiamo conto di essere coinvolti da vicino e tirati dentro ad un mondo che non ha alcuna percezione del valore delle vite umane, e quindi non si scalda troppo al riguardo.

       Addosso a qualcosa di freddo. Con un lavoro difficilissimo a livello di dialogue coach: amalgamare la recitazione di attori veri e propri con quella di ragazzi e adulti che fanno semplicemente se stessi. Partita improba da giocare anche per Toni Servillo, che invece non recita per tutto il film,  diventando uno dei tanti di quel mondo. Quanto non mi aveva convinto negli ultimi film, nei quali mi era sembrato che con una faccia sola avesse recitato tre anni a prescindere dalle storie, tanto mi ha sorpreso, colpito e risvegliato in Gomorra.

       Esiste un tema linguistico che per noi italiani è cruciale. Non è tanto il fatto che sia un film in napoletano, quanto che si tratti di un film italiano non in italiano. Ci vantiamo – mai capito per quale ragione – di avere i migliori doppiatori del mondo (saranno i migliori doppiatori del mondo a doppiare in italiano !) e ho spesso sentito dire ah se recitassero direttamente loro invece che i nostri attori!  Il problema è molto grosso, perché in italiano non esiste una convenzione recitativa al di fuori di quella della fiction televisiva o del film in dialetto. L’unica convenzione che abbiamo è quella della commedia all’italiana, che ormai sopravvive sempre peggio tra cinepanettoni e vacanze ai tropici. Ma per il resto l’unico modo nostro di recitare è la verità,  mentre i doppiatori dei film stranieri parlano come personaggi da film.

       Si tratta di tutto un mondo di toni, inflessioni, che in un attore drammatico in un film italiano sarebbero falsi, e che invece funzionano nel doppiaggio, quando raccontano una realtà diversa dalla nostra quotidiana. Questo ci toglie il terreno sotto i piedi, e Garrone ne è uscito rifacendosi ad un’altra lingua, ad un dialetto, con l’esito di risultare autentico e interessante e non piatto e buttato via come in altri casi italiani. Ma onestamente, devo dire, questa non può essere una soluzione che vada oltre questo film. Sulla recitazione e sulla nostra idea di recitazione dobbiamo lavorare, credo. E anche sui criteri di assegnazione delle parti…

       La sceneggiatura era un altro grosso problema, perché i multitrama sono pericolosi, perché poi va a finire che mancano di un centro emotivo con cui identificarsi, perché si spiaccicano in quei ritratti ambientali da documentario venuto male. Qui invece è decisivo ogni momento. Perché è girato con un’intensità e una consapevolezza incredibili. Perché ognuno di questi personaggi è sorretto da un desiderio preciso e suo proprio. E questo origina azioni scandite, chiare, differenziate. Il mondo è quello che è ma nessuno dei personaggi che lo abitano è uguale all’altro. Allora tutto gira, è – come dicevo – illuminato dalla consapevolezza millimetrica del che cosa e del perché stiamo raccontando una storia.

       Erano anni che un film italiano non mi piaceva così tanto, anni che non finivo di vedere un film italiano così completamente convinto e felice. E questa volta sì, forse per la prima volta, spero che Hollywood se ne accorga, perché davvero lo merita.

 

 

 

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