Ci sono alcune mine che non bisogna pestare quando ci si incammina sul sentiero della biografia o del film che racconta una storia vera. Una delle tante è che non tutte le storie vere sono verosimili e che quindi proprio ciò che ti attira nel raccontarle è ciò che le danneggia a film finito. Un’altra è quella della fedeltà ai fatti. Perché i fatti non sono niente e sono sempre polarizzati da chi li guarda, per cui sei su un pericoloso bilico: o sei parziale o sei asettico. Terza mina è quella della ricostruzione degli anni che furono. Fedeltà al tempo della storia vera, insomma. Perché i tempi che c’erano a quel tempo – intendo tempi di dialogo, tempi di ascolto – non possono coincidere con i tempi narrativi di oggi. Quindi o sei noioso o sei infedele. Ennesima mina è quella ideologica. Il passato è spesso un passato rivisitato per fini politici. Ogni storia porta con sé un aspetto simile, ma quando la storia è parte della Storia diventiamo di colpo più sensibili.

Clint Eastwood non ha pestato nessuna di queste mine. E’ riuscito in quest’impresa grazie a una tecnica ormai diventata finissima e grazie ad un immenso amore. Ha trattato la storia di J. Edgar Hoover con un’umanità silenziosa e toccante. Senza la falsa preoccupazione di essere esaustivo – altra mina letale per chi fa un film biografico – ha piuttosto lavorato su una ferita profonda e dolorosa: quella della vergogna. Ha raccontato con un gruppo di attori formidabili la lotta massacrante di un uomo con i propri fantasmi. Una madre giudice e tetragona di fronte alla quale Edgar non avrà mai il coraggio di dichiarare la propria omosessualità. Un dolore e una vergogna, un’incapacità di accettare se stessi che lo perseguiteranno per tutta la vita. Che influenzeranno molte delle sue azioni pubbliche.

Il film di Eastwood è controllatissimo, come il protagonista. Severo, quasi trattenuto, con toni lividi e sommessi. Ed è proprio in questa estrema sorveglianza formale che la dolcezza di quest’amore omosessuale si fa strada inarrestabile. Il film si muove come il cuore di Edgar e alla fine come il nostro, mentre la presenza di Clyde – il secondo di Hoover, interpretato da Armie Hammer – pensa a squarciarlo portando l’amore con un viso aperto, sorridente e solare, che devasta con la sua naturalezza e la sua trasparenza la fitta rete di schermi, di argini, di contenitori ideologici che nel film diventano formali.

E’ la struggente parabola di un uomo dilaniato tra il senso di giustizia e il senso di colpa. L’esercizio della giustizia è di per sé un esercizio di contenimento del male: se il male non ci fosse non avrebbe senso parlare di giustizia. Il punto è che quando arriva un amore vero, forte, intenso e capace di durare nel tempo vieni chiamato in causa tu stesso. E i confini del bene e del male diventano sempre meno facili da distinguere. Senza trascurare l’altro polo drammatico, la segretaria di Hoover, Helen, interpretata da Naomi Watts con una debordante passione asciugata da un estremo rigore.

Liberato il campo narrativo da ogni sensualità già vista o – peggio – da ogni romanticismo, Eastwood ci mostra parti dei nostri amori, quelle che vorremmo, quelle che non vorremmo e quelle che abbiamo. Grazie alla sobrietà e alla sottrazione di tutte le cose facili da raccontare e da immaginare, i nostri occhi si aprono in una sistematica e crescente scoperta: di quante altre cose è fatto l’amore? Per esempio di amicizia. Questo è un film che può interrogarci in modo abbastanza preciso su noi stessi e sull’amore che stiamo vivendo: quanta amicizia c’è nella nostra relazione? Dove per amicizia non si intende come al solito complicità – e ai danni di chi poi? – ma per esempio discrezione e rispetto. Capacità di distanza, di riconoscere all’altro il suo proprio spazio di riservatezza, di diversità di opinione, di gusto. Amarsi può anche non essere difficile, per volersi bene ci vuole un grande coraggio. Per amicizia si intende – in questa storia omosessuale – la capacità di restare accanto dissentendo, di discutere non cercando di cambiare l’altro, di permettere alle sue parole di farsi strada dentro di noi anche se ci fanno male.

La forbice tra l’umanità di Hoover e la sua aberrazione personale, il suo ego che brucia nel tentativo di compensazione della sua ferita di vergogna così clamoroso e iperbolico, non muovono in noi altro che compassione, perché sentiamo il suo dolore. E’ che la legge garantisce dal male ma non garantisce la libertà interiore. Con questa comprensione generosa e matura, Eastwood ci racconta con amore un uomo per molti versi discutibile. Leonardo di Caprio, Naomi Watts e Armie Hammer sono fenomenali nella recitazione di due età molto lontane della vita che nel film continuano a giocare a ping pong. E diventano così due parti di noi, quella che lotta per affermarsi e quella che sta già perdonando e lasciando. La Storia è fatta di storie, di persone, di noi. Se riusciste a vederlo non doppiato potrebbe essere un’esperienza meravigliosa.

0 risposte

  1. Quando una quindicina d’anni fa andavo dicendo che Clint Eastwood sarebbe diventato un Maestro del cinema, mi davano del matto (tutti ancora con in testa – giustamente – l’immagine del cowboy o di callaghan…). Ma il suo amore per il cinema te lo trasmetteva già nel suo primo film (da autore vero) “Gli spietati”. Poi è stato tutto un crescendo. Veramente uno che ama e rispetta profondamente il suo lavoro e te lo vuole dire ogni volta che gira.

    gigi

  2. Buonasera, sono uno studente al primo anno della civica di milano e non le nascondo che appena terminata la visione di J. Edgar avrei voluto immediatamente sapere quale fosse il suo parere a riguardo. Peraltro la mia stessa visione si è accompagnata ad un’analisi quanto più possibile vicina a quelle dei film che ci ha proposto in classe e credo di essere giunto a due conclusioni: nel film vedo presente sì una notevole ferita di vergogna, ma anche un’altra altrettanto personale (e pervasiva in termini narrativi) di invasione. In principio è l’invasione dell’America da parte dei “radicali”, l’invasione di Edgar nei loro covi e nelle vite dei cittadini americani, la sistematica invasione delle istituzioni nelle attività della agenzia diretta da Edgar e non da ultime naturalmente le invasioni compiute da Clyde (un’invasione che avrà i suoi risvolti positivi indubbiamente) e soprattutto dalla madre, instancabile e asfissiante presenza nella vita e nelle scelte umane e sessuali di Edgar. In un certo senso anche la rivelazione finale di Clyde mi pare una sorta di invasione: egli dimostra non solo che le menzogne di Edgar sono state funzionali a ridurre il suo senso di inadeguatezza rispetto all’opinione pubblica, ma che egli può nascondere qualsiasi cosa a chiunque tranne che a lui. Detto in altri termini Clyde è del tutto consapevole della sua facoltà di penetrare le barriere che lo dividono dalle autentiche emozioni di Edgar, per quanto non potrebbe mai utilizzare mai tale facoltà a suo danno.
    Le mie sono ovviamente solo congetture, spero di non aver male interpretato il film o addirittura il metodo di analisi.

    Saluti
    Simone Manganello

  3. Complimenti Simone. Mi hai aiutato a vedere anche un’altra luce. La ferita attorno alla quale un film si regge è sempre tale per il nostro sguardo. Per questo la ferita che vediamo ci dice qualcosa del film e qualcosa dei nostri occhi. Sono molto felice per la tua lettura di Edgar. Buon lavoro e buona continuazione d’anno.

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