Ho  visto il film di Andrea quest’estate, in un solitario pomeriggio milanese. La casa vuota e l’idea di un po’ di tempo davanti. Ora che è fresco di Mostra del Cinema di Venezia mi piace parlarne pubblicamente. Spero anzi di ricevere notizie su qualche posto in cui possa essere visto perché credo che arriverà in sala prima o poi, ma non essendo un film connivente con la corrente della facilità potrebbe non starci dei mesi.

Il film è in tre parti, ma non le chiamerei atti perché non si tratta di una storia. Anzi forse del suo contrario. Anziché procedere e far derivare gli eventi dai precedenti, anziché percorrere una linea emotiva dinamica, il film ci invita a stare. A re-stare e a so-stare. Quasi a sospendere ogni pensiero. I laghi piemontesi di questa prima parte sono seguiti per tutto un anno nel loro trasformarsi dal gelo al caldo delle stagioni. Una legge fuori di noi, che ci contiene, ci mantiene e ci determina, e una dentro di noi che guida il nostro sguardo, che è la mano di Andrea.

Come è fuori così è dentro, sembra. Man mano che le immagini di questa prima parte passavano in silenzio, solo con i rumori della natura, vedevo sempre meno le immagini e sentivo sempre di più trasformare il mio sguardo. Ho percepito come un invito a guardare il mio modo superficiale e frettoloso di guardare. Come se mi si dicesse: aspetta, taci un momento. Guardati intorno. Guarda di che cosa fai parte.

Poi inizia la seconda sezione del film. Primissimi piani di pazienti oncologici avanzati. E qui, invece, tante parole. Le loro. Dritte in macchina. Dritte a noi. Eppure mai aggressive, mai tendenziose o strumentalizzate. Difatti non saprei dire cosa ne pensi Andrea della morte piuttosto che del dolore. Sento che aveva bisogno di stare in ascolto e mi ci ha portato. Anziani, meno anziani. Giovani, giovanissimi. Volti e parole. Prima è stato fuori ora va dentro. La natura e l’uomo. La scatola e chi ci vive. Unici eppure parte di un tutto che forse ha un suo senso anche se ci sfugge.

L’ultima parte è nel box di Andrea. Sì, nel box. Suo padre – paziente oncologico morto di recente – faceva l’imbianchino. E il suo box era pieno di secchi di vernice, di pennelli, di attrezzi, ma poi anche di oggetti di memoria personale, di dischi, di giornali. Nel film Andrea in voce fuori campo dice: “Diceva sempre che l’avrebbe sistemato, un giorno o l’altro”. Ecco, questo mi ha colpito immensamente. Perché il film di Andrea interroga anche il mio modo di voler mettere a posto le cose. Qui il box diventa una radice di memoria e di storia. Un’identità cui Andrea e suo fratello si ricongiungono e letteralmente ridono e festeggiano la vita che fa il suo corso e partorisce il suo futuro.

Benedetto l’impegno non mantenuto del papà. Benedetta la giornata spesa a recuperare, dividere, riconoscere, ricordare, sentire dopo tanti anni. Benedetta questa restituzione della vita alla vita, anche se non coincide con la nostra idea di box ordinato. E grazie ad Andrea per questo lavoro che gli è costato anni di fatica senza restituirgli credo quasi nulla del denaro speso. Per me La vita al tempo della morte è uno splendido film sul tempo della vita.

 

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