Una sceneggiatura con una certa quantità di dialoghi, quindi con qualche rischio di teatralità. Non facile da girare, e soprattutto non facile da girare con semplicità, come ha fatto Mc Carthy. Quello che mi interessa osservare è come Mc Carthy sia riuscito nell’intento di rendere cinema una storia quotidiana, di evitare come dicevo il rischio del teatro, come ha fatto a non essere banale rimanendo a contatto con la vita vera e con una storia che – eccetto il fatto di trovarsi in casa due immigrati clandestini – scivola per le soluzioni più normali e prevedibili.
Innanzitutto c’è una distanza che i personaggi tengono sempre fra loro. Nelle diverse angolazioni, il film è permeato dalla discrezione. Convivenze, confessioni personali, emozioni profonde. Tutto con estremo senso del pudore. E potrebbe essere proprio questa la chiave del film: il pudore salverà il mondo, perché rispetta gli spazi altrui non giudicandoli e ottiene rispetto per i propri. Ma la forza del film sta – anche – nel fatto che lo stesso pudore lo tiene la macchina nei confronti dei personaggi. Un pudore che è misura, controllo estremo della distanza. Non fruga mai, Mc Carthy. Non è che siccome ha a disposizione una macchina allora entra senza bussare dappertutto. Rimane in una relazione lieve, attenta, come lieve e attenta è la recitazione di tutti gli attori.
Ci sono, poi, dei passaggi francamente poco credibili, che confesso che mi hanno tenuto distante – a mia volta – dal film. Non ho creduto alla reazione pacata del padrone di casa alla scoperta che il suo appartamento era abitato e nemmeno all’assenza di una minima indagine su chi avesse dato loro le chiavi e imposto loro un affitto. Questo francamente – e non solo – mi ha convinto poco, perché quando stai radente alla realtà devi essere anche fondato nelle svolte profonde. Però questi passaggi poco convincenti sono riassorbiti da qualcosa di più ampio e potente. Il linguaggio.
E’ vero che la macchina si muove poco ed è molto sobria, ma proprio per questo, avvalendosi di un’ottima fotografia, mantiene un’eleganza assoluta, di quella silenziosa, mai ostentata, che non si fa vedere. E come la ricchezza dei ricchi veri è spesso invisibile, la ricchezza di spirito è spesso la sobrietà, il non apparire. Usare la macchina senza farci capire quanto sei bravo a usarla, fotografare senza farci urlare alla fotografia, recitare senza farci vedere il tuo patrimonio tecnico e il tuo talento. Ecco, questo film è tutto così.
Un’operazione non solo di cuore, ma in gran parte di cervello. Perché avviene questo: che attraverso l’uso di uno stile molto preciso e coerente, molto vicino alla realtà ma mai coincidente con essa, la nostra percezione si fa specifica, e affiniamo il palato ad una storia che usa il realismo con distacco, la cronaca come parabola, l’immediatezza come simbolo profondo. Una finta semplicità in realtà difficilissima da realizzare.
Questo per dire che a volte le sceneggiature non andrebbero lette per quello che sono ma per quello che diventeranno. Bisogna più guardarle che leggerle. Bisogna sentire quale mano ci condurrà dentro quella storia, fra quei dialoghi. C’è troppa separazione in fase di analisi, certe volte, tra sceneggiatura e regia. Molte sceneggiature funzionerebbero con un certo sguardo, e diventerebbero degli ottimi film, per altre vale il discorso contrario. In ogni caso è un film che consiglio, a chi avesse voglia di un percorso tenue e delicato, che però gli si muoverà dentro.
Ieri ho finito di leggere “venuto al mondo”, della Mazzantini. Ricordi? L’ho ricevuto per Natale, me l’ha regalato un’amica e ci ha visto giusto. Sarajevo ha sempre un certo effetto su di me e leggere storie di laggiù ha in me un effetto immediato: spesso non mi piacciono, le trovo banali e incomplete, troppo parziali per rendere la complessità di quelle terre, di quella gente, di quella Storia.
Questo è un libro infinito, quasi seicento pagine, eppure l’ho divorato in due giorni.
Non so se mi sia piaciuta la storia, non so dirlo. Mi sono chiesta, però, che cosa ne avresti pensato tu.
Ho riletto alcune delle radiografie per aiutarmi a capire se la storia è eccessiva o se era necessario che tutto fosse così perché veramente si dispiegasse nella sua verità.
Talvolta mi capita di chiedermi “chissà che direbbe gio” perché mi rendo conto che serve discutere per capire quel che si crede di aver capito, per afferrare quel che c’è dentro oltre a quel che si percepisce fuori. E tu sei uno che smonta e rimonta, cosa che la mia pigrizia spesso mi impedisce di fare.
Buon lavoro, e grazie per i suggerimenti e le riflessioni.
Anna