Arriva per tutti. Il tempo del fare. Nel caso di Remy e di Linguini, del fare insieme. E qui c’è un nuovo punto chiave del viaggio: nella casetta di Linguini, uomo e ratto cercano un linguaggio. Linguini deve interpretare le tirate di capelli di Remy e farle diventare azioni concrete. Nient’altro che mettere d’accordo testa e mani. Perché a questo punto è chiaro che ratto e uomo sono due parti dello stesso essere, e che il primo linguaggio che dobbiamo costruire è quello che ci permette di comunicare correttamente con noi stessi.
Fra intenzione e azione, fra progetto e realizzazione, fra le idee e le cose c’è un lungo e sempre faticoso percorso. Soprattutto per chi ha sognato tanto e ha grandi speranze, i conti con la realtà sono affilati come lame. Ed eccola la realtà. Una cucina di lusso nella quale viene realizzato ogni sera il verbo del grande Gusteau. L’ostilità del nuovo cuoco mette Linguini alle prese con una ricetta che Gusteau stesso definiva maledetta, non riuscita. Niente di che stupirsi, ormai lo sappiamo: il mondo non ci vuole mai, all’inizio.
Finché non lo portiamo ad avere bisogno di noi.
E c’è un solo modo per farlo: dargli di più di quello che si merita. Quello di cui necessita la ricetta maledetta è solo un modo diverso di essere guardata. Finché le ricette sono regole noi non possiamo che esserne gli esecutori. Ma se le ricette vengono viste come indicazioni di possibili strade, allora noi diventiamo viaggiatori, interpreti, scopritori. In un mondo nel quale tutti sono al servizio delle ricette di Gusteau, Remy capisce che le ricette sono al servizio di chi mangia. E reinventa il piatto, contraddicendo la ricetta e sposandone il senso profondo.
E c’è un solo modo per farlo: dargli di più di quello che si merita. Quello di cui necessita la ricetta maledetta è solo un modo diverso di essere guardata. Finché le ricette sono regole noi non possiamo che esserne gli esecutori. Ma se le ricette vengono viste come indicazioni di possibili strade, allora noi diventiamo viaggiatori, interpreti, scopritori. In un mondo nel quale tutti sono al servizio delle ricette di Gusteau, Remy capisce che le ricette sono al servizio di chi mangia. E reinventa il piatto, contraddicendo la ricetta e sposandone il senso profondo.
Dare al mondo il meglio di sé comporta sempre delle fratture. Perché una parte del mondo si apre alle risorse che offriamo, mentre l’altra resiste nella difesa dell’istituito. Per questo si scatena una nuova serie di sfide e di trappole che qui sarebbe lungo analizzare. Di fatto però possiamo dire questo: una volta che il mondo scopre un contributo di novità, tende subito a dargli un ruolo, ad istituirlo appunto, e quindi quasi a spegnerlo. E’ il prezzo dell’ingranaggio e dell’integrazione. In questo tentativo di “appropriarsi” di qualcuno, l’ingranaggio deve far fuori qualcun altro. La novità e la qualità portano invidie e conflitti. Come dentro di noi: ogni novità crea fratture e ricomposizioni dolorose.
Nonostante Remy veda il mondo in trasparenza attraverso il cappello da cuoco di Linguini – delicata ed elegante carezza a chi è costretto a vedere il mondo dietro il burka – questo ristorante comincia ad essere un mondo irrinunciabile, nel quale i due personaggi si trovano sempre meglio. E quando il nostro extra – mondo ci ha portati con sé e ci ha assorbiti in pieno, quando gli abbiamo dato il meglio e siamo stati riconosciuti per quello che valiamo, quando siamo felici di noi e di quello che stiamo riuscendo a fare… tutto ciò da cui siamo partiti torna a farsi vivo.
La famiglia, segno dell’appartenenza e della provenienza, e il padre, segno dei valori di riferimento cui siamo stati istruiti e formati. E di colpo, al rispuntare della sua tribù, Remy capisce quanto è andato lontano. Seguire se stessi profondamente apre tagli non ricomponibili in questa vita. Il padre può volergli tutto il bene del mondo ma non può smettere di essere un topo e di essergli padre. E tutto questo amore per gli uomini no, proprio non lo può accettare. Così conduce Remy davanti a un negozio di trappole per topi. Oltre la vetrina, come nel barattolo di vetro del primo atto, ci sono i topi morti nelle tagliole e nelle molle, e il padre invita Remy a rendersi conto di che cos’è l’uomo. E sono lì, padre e figlio, di fronte ai cadaveri oltre il vetro: chiusi fuori contro chiusi dentro.
Qui si decide. C’è il momento che apre le porte al terzo atto. Se da “piccolo” qualcuno lo aveva liberato da un barattolo, da adulto deve avere la forza di farlo da solo. Ratatouille è essenzialmente un film sulla libertà, e la libertà ha un costo altissimo. E’ tutto in quel fermo immagine del primo atto, con Remy che fugge dalle fucilate della signora rompendo il vetro – ancora – e recando con sé il libro del cuore. Mentre il padre contempla l’orrore delle trappole in vetrina, Remy sente che la trappola è stare lì, affacciati sul versante delle proprie paure. E se ne va. Trotterellando lungo il marciapiede sfila via, verso le sfide finali che lo attendono. E che non analizziamo qui, per non disturbare il finale a chi lo vorrà vedere.
Quando ti ho conosciuto ho sentito, nei tuoi confronti una naturale simpatia, poi ho ascoltato le tue parole e alla simpatia si è aggiunta la stima……ora che posso anche leggerti, mi viene facile ammirarti!
Basta con gli elogi, ora voglio condividere con te una riflessione, o dubbio ? che mi accompagna da quando ho iniziato a leggere le critiche dei film…..: è meglio leggere la critica prima e poi vedere il film o è meglio fare viceversa?
Dopo che leggo le tue “radiografie” mi viene sempre voglia di tornare a vedere il film radiografato!
A proposito, il termine “radiografie”,veramente azzeccato, nasce da un intuizione della dott. Lonati? Grazie per l’attenzione, un bacio ai tuoi bambini, a presto…tua moglie la saluto tra un minuto.
P.S. è colpa sua se devi leggere questa mail, ha tanto insistito ed ho ceduto, ora mi gaso che ci sono riuscito…..e come dicono gli emiliani…at salut. mauro
Caro Mauro, dopo la cena di pesce cucinata senz’aglio per me, il vino bianco e l’esercizio prodigioso che mi hai insegnato per il mal di schiena, la gratitudine è tutta mia. Le critiche… non lo so Mauro. Leggerle prima o dopo… direi che l’unica da scartare è leggerle durante: c’è un gran buio e di solito anche parecchio rumore. Ma l’essenziale è andare al cinema con la libertà più libera che possiamo. E vivere un’avventura, come dovrebbe essere. Abbandonarci al viaggio. Farci spiegare da qualcuno se il film era bello o brutto per me ha sempre avuto poco senso. Fare un film è un atto d’amore: tu dopo che hai fatto l’amore ti fai mettere i pallini e le stellette ? Le radiografie di questo blog cercano, nel loro, di non essere critiche. Ma semplici reazioni, risposte a stimoli. Piuttosto che domandarmi cosa volesse dire l’autore, cerco di capire cos’ha detto a me. Perché una storia che ci viene raccontata, nel momento in cui l’ascoltiamo, esiste per noi, è per noi. Il critico scriverà la sua recensione e sarà magnifica e dotta. Ma nessuno può sostituirsi alla nostra relazione intima e profonda con tutto quello che ci viene raccontato. Più che quando leggere le critiche, mi sento perciò di consigliarti dove metterle: non fra te e il film, siete più importanti. Ci sono altri luoghi nel cervello per ospitare i pareri degli altri. Detto questo, bisognerebbe rovinare dell’altro pesce cucinandolo senz’aglio, che ne pensi ?
Sai che mi aspettavo un risposta simile! Le tue “radiografie” non sono critiche e tu sei sempre propenso semmai ad elogiare. Lasci a chi ti legge la presunzione di criticare se ne sentisse il bisogno. Detto questo, mi piacerebbe proprio avere i tuoi occhi! Non mi piace il termine “rovinare”, se non ricordo male usasti il termine “non disturbare”! Io e lucia siamo ben felici di non disturbare il pesce cucinandolo senz’aglio per voi…..La data e l’ora la concorderemo a quattrocchi io e Giada. at salut
P.S. non mi hai svelato il segreto di : RADIOGRAFIE!
Radiografie viene da un desiderio semplice che avevo a un certo punto: saltare la pelle. Concentrato per molto tempo su problemi di fotografia, di ritmo, di punti macchina, insomma su tutto quello che “si vede”, sentivo il bisogno di ritornare ad uno sguardo purificato. Perché la pelle delle cose e delle persone mi condizionava troppo. Ossa. Avevo bisogno di ossa. Di capire perché stessero insieme profondamente i film, perché funzionassero. Strutture profonde, meccanismi di movimento e di stabilità. Ormai non so più se un film mi piace o no. Magari nel suo complesso non mi piace ma rimango incantato di fronte alle architetture narrative che ha. Mi interessano l’intenzione di comunicare e la strategia dialettica che ne segue, prima ancora che la sua riuscita.
I miei occhi Mauro…. non vedono niente di nemmeno paragonabile a quello che vedono i vostri. A Giada dico sempre che le sue mani sono fatte per togliere il dolore dal mondo. A maggior ragione le tue, che fai un tipo di lavoro ancor più fisico.
Sì, dicevo non disturbare il pesce… ma sarà stato l’effetto della Ribolla Gialla che ci avete offerto… e mi sottometterò volentieri alle vostre decisioni di vertice su date e modi. Un abbraccio. gio.
grande come al solito! ora basta con “gli scritti” è ora di passare alla prova “orale” e perchè no anche “nasale”, viva la ribolla di qualunque colore sia! mauro