Barattoli di vetro, cofani di automobili, trappole, lucchetti, maniglie a scatto. Ratatouille è essenzialmente un film sulla libertà. Quello che colpisce degli americani, quando sono bravi, è la concretezza di cui sono capaci in sceneggiatura. Nessuno come loro sa rendere i temi profondi così tangibili sullo schermo. Indifferenti alle accuse di didascalismo –  non del tutto immotivate  – che gli arrivano dall’Europa, continuano a produrre storie nelle quali l’arco degli eventi incide sempre con puntualità e precisione sul tema del film.

    Storia di un topo che scopre dentro di sé una personalità importante, Ratatouille narra la lunga e dolorosissima lotta che ognuno di noi compie per incontrare se stesso senza paura. La strada che conduce al nostro cuore passa necessariamente da tutti gli altri e da tutto il resto. Un percorso ad ostacoli, che ad ogni salto ci toglie sogni, illusioni, speranze. Ad ogni giro di corsa ci spoglia un po’ della poesia con cui eravamo partiti. Fino a che non ci rendiamo conto che quella non era poesia, ma un’idea facile, falsa e superficiale di noi stessi, della vita e del mondo.

    Incontrare se stessi e decidere di conoscersi comporta la messa in gioco di tutto ciò in cui eravamo inseriti prima: relazioni, ruoli, reputazione. La paura è sempre lì con noi a spiegarci che le svolte sono sconsiderate e impossibili. Questo pensa Remy, solo sul bordo di una fogna di Parigi, sganciato dal resto della sua famiglia in fuga perché attardatosi con il libro del grande cuoco Gusteau. La paura sa mascherarsi da consapevolezza e parla con parole che sanno di verità: tu sei quello che sei, non puoi cambiare le cose. Qui c’è l’alzata tematica, nel cuore del primo atto: il fantasma di Gusteau parla al topino Remy e gli dice: “Se non lasci quello che hai vissuto non puoi aprirti a quello che verrà”. Questa è l’asse tematica del film.

    Il percorso ha inizio dalla più semplice e dalla più difficile delle cose: la capacità di ascoltare. Il primo atto è finemente tessuto su questa linea: i compagni di Remy pensano solo a mangiare e non ascoltano nemmeno una frase di quello che lui dice. La sua famiglia vive in un’interruzione continua e in una superficialità disarmante, e congela le parole di Remy oltre un invisibile muro di estraneità. Remy invece entra nella casa di una signora, dove può ascoltare il grande cuoco Gusteau che parla in televisione e spiega le sue ricette.  La prima mossa della paura per impedirci di partire è fare in modo che non ascoltiamo. Ogni parola che entra ad abitare in noi è potenziale portatrice di cambiamento, e il cambiamento è morte di quel che viene cambiato e nascita di quel che non si conosce. Remy, quindi, senza compiere alcun atto clamoroso, si impone sottilmente come un eroe piccolo ma coraggioso.

    Emerso dalla fogna, Remy si trova alle soglie dell’ extra – mondo che lo attende: il ristorante del grande Gusteau. Ma maturare la decisione definitiva, fare il salto e buttarsi, non è mai facile, e richiede una dose di follia, di abbandono e di incoscienza che è quella che ognuno di noi mette nella scelta di una relazione, di un lavoro, di una casa nuova. Eccoci dentro il ristorante, impauriti come il piccolo Remy, e scopriamo che lungi dal mantenere le meraviglie che immaginavamo, il mondo in cui ci siamo buttati è pieno di insidie, di pericoli mortali e di umiliazioni. Gran finale: sembra non avere alcun bisogno di noi, perché ogni mondo che si costituisce tende a conservare se stesso e il proprio funzionamento, a rifiutare gli estranei come noi rifiutiamo il cambiamento. Il mondo ci somiglia, essendo opera nostra, per questo ci fa tanta rabbia…

    Ancora una volta la chiave è osservare. Amici, nemici. Di chi fidarsi e chi temere. E ci si fida sempre dei più deboli, perché almeno non possono nuocere. Così Remy finisce insieme allo sguattero Linguini. Lo salva da un disastro culinario correggendo di nascosto la ricetta di una zuppa. La zuppa ottiene un grande successo e Linguini viene chiamato a replicarla, pena la perdita del posto di lavoro. Remy viene visto e catturato, e Linguini viene incaricato di far secco il topo lontano dal ristorante. Remy finisce in un barattolo di vetro in mano al ragazzino, sul bordo della Senna. E mentre l’acqua del fiume  scorre a simboleggiare la vita che passa, i nostri eroi sono lì, uno di fronte all’altro: chiuso dentro contro chiuso fuori, il vetro è uno specchio e i due si riconoscono.

    Tra perdenti si parla. Così Linguini capisce che la ricetta è opera del topo. Ascoltare non ha senso se non è seguito da credere. Ci vuole ancora coraggio. I due sono liberi solo di stare insieme: l’uno introduce l’altro nella cucina dei sogni, e questo gli fa eseguire di nuovo la ricetta. E’ una scommessa, un patto. Linguini apre il barattolo. E qui c’è la prima chiave portante del film. Il mid-point dei due personaggi, il loro punto di morte che precede l’intuizione decisiva: Remy scappa per qualche metro poi si ferma e capisce. Una volta che assaporiamo la libertà ci viene addosso la domanda necessaria e inevitabile: liberi di fare cosa ?

    La libertà è libertà di diventare pienamente se stessi, e cioè di ubbidire con scrupolo a quello che siamo profondamente. A che serve a Remy scappare verso la vita di prima ? L’unica strada alla vita che ha sognato e per la quale ha così tanto rischiato, è accettare un’altra svolta profonda nel suo percorso, che è parte del percorso di ognuno di noi: vincere la paura significa imparare a fidarsi.  Remy si ferma, ci pensa, c’è uno sguardo lunghissimo tra due perdenti perduti, e torna da Linguini. Separati non sono niente. Come ognuno di noi senza relazioni autentiche. Ed eccoli in bicicletta tornare a casa. Ora la scommessa  di ognuno di loro è diventata la scommessa di entrambi.

    Ma adesso, la realtà con tutti i suoi ostacoli è pronta e agguerrita, e con la forza della concretezza sospingerà nuovamente la paura. Capire qualcosa profondamente è sempre bellissimo. Ma la vita è lì che aspetta. Ora, bisogna agire. 

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