Sì, un po’ fuori tempo massimo parlare oggi di Salvate il soldato Ryan. Ma un allievo mi pone una domanda precisa e mi invita a riflettere di nuovo su cose trascorse. La domanda è intelligente e impostata bene: di che cosa parla veramente il Soldato Ryan ?

    Le storie sono il luogo in cui ogni idea, ogni convinzione, ogni pensiero sulla vita e sul mondo trovano visibilità e tangibilità. Le trovano attraverso lo sviluppo delle azioni fisiche concrete del protagonista, che è il centro della declinazione dei valori di una storia.

    Già da questo c’è qualche problema con Ryan. Perché mi trovo in difficoltà a rispondere a una semplice questione: di chi è la storia del soldato Ryan ? Il titolo è un primo indizio preciso dell’incongruenza che abita nel film, e cioè che ci sono tre poli drammatici convocati in una linea sola: chi ordina di salvare Ryan, chi lo deve salvare e, naturalmente, Ryan.

    Se la storia è di chi ha ordinato di salvare Ryan, il protagonista – il governo degli Stati Uniti – è assente per tutto il film, e un film senza protagonista… Se invece il protagonista è chi deve salvare Ryan, entra in azione tardissimo, a secondo atto inoltrato. Se infine è Ryan… beh, è un protagonista semplicemente passivo, perché altro non fa se non combattere come gli altri una battaglia nei pressi di un ponte ed essere salvato.

    Se non si trova la linea profonda delle azioni che guidano la storia è molto difficile capire di che cosa parli veramente. Tuttavia il film è furbissimo, e non è certo Spielberg a cadere su un tranello così facile. Perché l’impronta tematica viene comunque data da altre linee, poco narrative e molto dichiarative. Lettere, discorsi, parole. Che mirano a dire che la vita è un dono ma bisogna conquistarselo. Guadagnarselo. Meritarselo. (Domanda spontanea: ma allora non somiglia a uno stipendio piuttosto che a un dono ?) E che l’America è una grande mamma che fa tutto quello che può per salvare anche solo uno dei suoi figli.

    Ecco, qui stava secondo me la svolta possibile del film. Le obiezioni dei soldati (“Fuck you Ryan” è una delle cose più gentili che gli dicono prima di trovarlo) appaiono di grande buon senso. Perché rischiare la vita di quindici uomini per salvarne uno, che ha il solo merito di aver avuto tre fratelli uccisi in quella stessa guerra ? Questa domanda non viene mai superata, né digerita, e rimane come un buco che aleggia sopra la sceneggiatura. La svolta sarebbe dovuta avvenire in direzione di una comprensione profonda da parte dei soldati, in un fare propria la missione che gli era stata assegnata, in una maturazione che li portasse a condividere ciò che fino a quel momento riuscivano solo ad eseguire. Ma la cosa non avviene, e non avviene per il semplice fatto che… non c’è maturazione possibile che ti porti a ritenere quella missione giustificata. Qui il film davvero mi sembra che non funzioni. Mi spiego.

    Il film si intitola “Salvate il soldato Ryan” ma dice in realtà “Salvate la mamma del soldato Ryan” che ne ha già persi tre. La missione in questo modo appare divaricata, non ben delineata, confusa. E, non ultimo, nei personaggi principali questa avventura non comporta il minimo cambiamento interiore. Chi è maturo lo è già all’inizio, chi non lo è non lo diventa. Insomma, se ciò che ci spinge a maturare è la pressione degli eventi esterni che modifica il nostro mondo di convinzioni, emozioni e idee, in una vicenda nella quale non entriamo mai in contatto profondo con ciò che dobbiamo fare va da sé che non cambieremo di una virgola.

     In conclusione mi ricordo di una cosa che mi hanno insegnato molto tempo fa: una sceneggiatura può essere resa meravigliosa o scadente dalla regia, ma solo la sceneggiatura decide se la storia sta in piedi o non sta in piedi.

 

0 risposte

  1. Sono felice di leggere questo post, giovanni, sono contento che un professore rifletta sulle domande che fa un allievo e per di piu’ ne faccia argomento di riflessione, mi sembra una sorta di miracolo.
    tra l’altro ora copio/incollo: che mi serva da promemoria per il punto di osservazione di un film di guerra.
    E’ troppo facile per una sceneggiatura che parla di guerra finire nell’epica e nella sviolinata nazionalista, come tra l’altro succede in “ryan’s story”, oltre alla voragine di sceneggiatura.
    Mi domando e mi sorprendo come gli unici a riuscire a parlare di guerra senza cadere nella retorica siano stati kubrik, coppola, e (foooorse) schumacher.
    Ma nemmeno mi sorprendo che gli unici siano stati loro.
    Beh stone in “platoon”…naaa!
    a presto.

    un saluto giocondo.
    f.l.

  2. francesco…affermarli come “unici” mi pare un pò azzardato…però non ti conosco e quindi lo dico con beneficio di inventario, ovviamente. Mi permetterei solo di segnalare gli ultimi due film di Eastwood per esempio, il quale non è certamente allo stesso livello dei maestri da te citati, lo riconosco, ma meritano…e poi è vero che Spielberg ultimamente lo vedo un pò in decadenza (insomma, la discesa della parabola prima o poi la percorrono tutti, soprattutto quando hai prodotto tanto), ma per me Schindler’s list rimane un capolavoro…e ce ne sono tanti altri….(pure in Italia se vogliamo). Un abbraccio

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