Esiste un alfabeto dentro di noi, a quanto pare, scritto molto prima che noi imparassimo a leggere e a scrivere. Alfabeto di impulsi visivi e auditivi che riceviamo, immagazziniamo, organizziamo. L’alfabeto che ogni animale ha dentro di sé.
The Company ci riconduce a questo livello primitivo. E ci fa sentire forte come alcune dimensioni che oggi tendiamo a dimenticare, dettino in realtà gran parte della nostra vita.
Non mi sembra così determinante la scelta di girare in digitale, anche se forse meriterebbe un discorso a parte, quanto la scelta visiva globale del film. The Company è secondo me un film sullo spazio e sulla nostra esperienza dello spazio. La danza come conoscenza dello spazio dentro e fuori di noi. Ho letto di tutto su questo film: che la storia è inesistente, che il film stesso è inutile, che non c’è profilo nei personaggi. E in un certo senso qualcosa di vero c’è.
Altman frequentemente sembra non andare da nessuna parte. Finché non ci si rende conto che le mete verso le quali tende non sono quelle abituali in un film, specie se americano, ma non per questo sono assenti: sono più fini, più sottili. E come si fa certe volte per paura, o per insicurezza, tendiamo a dire che le cose che non vediamo non ci sono. E’ un po’ il destino di Altman. D’altro canto è evidente: Altman è ironico sempre e comunque. L’ironia è appunto l’arte di dire due cose contrarie nello stesso momento. E di farlo con chiarezza. Questo chiede essenzialmente la presenza di un pubblico. Che completi il film cogliendo la parte contraria, ciò che viene detto intanto che viene detta un’altra cosa…
L’altro è l’ottica con cui è girato: il grandangolo. Tutto a fuoco, quasi sempre. Grandi spazi. Movimenti morbidissimi di macchina. I personaggi sono in un punto a metà tra noi e la fine dello spazio, che sia un muro o un sipario o una finestra. Questo rende i loro drammi comunque distanti, comunque immersi e compresi in qualcosa di più ampio di loro di cui a volte nemmeno loro sembrano consapevoli.
Torno sul grandangolo: girare tutto a fuoco comporta che il personaggio non si stagli mai sul fondo della realtà che lo circonda. In qualche modo quando vedo un personaggio a fuoco su un fondo sfuocato, entro in lui, mi sento in intimità con lui, l’intimità è appunto un momento privato rispetto a tutto il resto. Il nitore continuo di questo film (teoricamente assurdo, se si pensa che si parla di artisti, con un mondo interiore di solito ipertrofico) non dice che questi personaggi sono superficiali , per tornare ai commenti che citavo, né che sono inutili. Dice che il loro mondo interiore è vomitato all’esterno, che sono incapaci di protezione delle proprie emozioni. Eccoli infatti corrersi dietro visceralmente dall’inizio alla fine del film. Ognuno di loro è l’intimità dell’altro.
E poi… la bellezza. Il difficile tema della bellezza che non deve mai essere decorativa. Il fatto è, sembra, che l’esito di tutto questo affannarsi, sudare, spingersi, faticare, è compreso in un senso più ampio, che è sempre di grande respiro, un respiro che non vediamo perché ne siamo parte. E’ il balletto finito, spettacolare, travolgente, ma mai per noi che lo balliamo. E’ un regalo. Siamo destinati a dimenarci nella dura danza della nostra vita sempre a beneficio di qualcun altro che ne coglie la bellezza da un punto di vista lontano.
In conclusione, il meta – linguaggio di Altman mette i suoi personaggi contro il suo sguardo su di loro. Una lezione di cinema e credo anche di umanità. Un esercizio insolito: camminare per strada e sentire lo spazio davanti, sopra, sotto e dietro di noi. E il tempo, che ci ha partoriti e ci supererà, che in questo momento ci accoglie.