Li aspetti sempre un po’ al varco gli americani, quando fanno film sulla politica estera della Casa Bianca e delle grandi istituzioni internazionali. Perchè ci sono due parametri dai quali è molto raro che escano. Da un lato sai già che denunceranno cose orrende, dall’altro sai che lo faranno sufficientemente poco da poter essere distribuiti in tutto il pianeta.  Viviamo in un tempo in cui la verità più corrosiva la dice Michael Moore, spesso in palinsesto sui canali di Murdoch. 

    The Hunting Party non fa eccezione. Richard Gere con barba sfatta attraversa questa storia nella Bosnia post bellica alla caccia della Volpe, soprannome del terrorista ricercato numero uno per crimini contro l’umanità. La Volpe vale oggi una taglia di 5.000.000 di dollari. Non bastasse, ha pure fatto ammazzare in una strage la compagna di Gere, che stava per dargli un figlio. Mamma mia quanta roba… quanti buoni motivi ha il decaduto giornalista Gere per fare qualcosa. Il trio formato da lui, dal suo operatore e da un ragazzino raccomandato dal network, deraglia rispetto ai compiti e si avvia nella macchia, sulle tracce dell’introvabile terrorista.

    Le relazioni tra i tre sono lunghe da raccontare, ed è su altro che mi si è fermata l’attenzione. Sul fatto che a un certo punto i tre arrivano faccia a faccia con il terrorista. E’ notte, c’è una cascina in mezzo alla natura, agli alberi. Quello è il covo. E mentre vedevo i tre avvicinarsi, finire dentro, e poi un volta dentro venir legati, minacciati di morte, quindi per puro miracolo salvati ed infine liberati, ho pensato a Pinocchio.

    A questo bambino che a un certo punto si ritrova nella caverna più profonda: il ventre della balena. E lì ritrova Geppetto, tocca il suo mid point, da lì in avanti sarà diverso, stavolta anche il suo spirito pare averlo capito. E si apre un tempo dolcissimo, fatto di parole tra padre e figlio nella pancia del pesce. Diciamo che ai tre giornalisti succede quasi iconograficamente lo stesso, solo che nella pancia più profonda del male non trovano un padre buono e gentile ma la temibile Volpe.

    Questo rifarsi del cinema americano ai pilastri profondi della narrativa, anche quando la storia, come in questo caso, è scritta da giornalisti sulla base di esperienze verissime, mi piace sempre. Perché saranno schematici, saranno ripetitivi, ma le loro storie sono più solide delle nostre. Narrativamente capiscono molto meglio di noi se una cosa funziona o no. Peccato, perché ci sono stati un paio di decenni nei quali loro facevano quasi solo film di genere e noi il neorealismo…

    A parte questo, però… il film piacerà molto ma non funziona. Mi sbaglierò, ma sono convinto che farà parte di quella fila lunghissima di lavori americani che avranno un cospicuo esito al botteghino ma di cui tra un po’ nessuno si ricorderà più.  E questo sempre per lo stesso motivo: perché l’esperienza che The hunting party ci propone non è autentica.

    Gere avvicina il suo operatore di cinque anni prima per convincerlo a compiere l’impresa. Ma nei cinque anni passati, i due hanno condotto vite assai diverse. Gere eriocamente sul campo di battaglia, non riuscendo più a vendere un servizio a nessuno a causa della sua indefessa fedeltà al vero. L’altro invece trionfando sui network americani e diventando una star.  L’esca è semplice: so dove si trova la Volpe. Diciamo quindi che Gere ci va per soldi e per vendetta personale, mentre l’altro per la gloria in diretta tv.

    Il viaggio che segue è come tutti i viaggi un percorso di crescita. Dovrebbe esserlo diciamo, se no che si viaggia a fare ?  E invece qui il film si ferma. Cioè la storia va avanti ma i personaggi no. Si dimostrano cose alquanto ovvie: che non è vero che le grandi organizzazioni internazionali e gli Stati Uniti cercano veramente i criminali altrimenti li troverebbero, come riescono a fare tre giornalisti volenterosi. (Vero o no che sia, diciamo che non si tratta di un messaggio propriamente nuovissimo). Ma torniamo a quel punto che mi era piaciuto, l’incontro più buio con il male, luogo fondamentale del viaggio del personaggio. Quello è un incontro che cambia il panorama interno, morale e psicologico, dell’uomo che lo vive. Quindi è del tutto normale aspettarsi di trovare, all’alba, personaggi cambiati.

    Invece qui gli cambia la situazione attorno, ma loro sono uguali. E la cosa si paga tutta alla fine, quando – catturata la Volpe – ognuno di loro rinuncia ai soldi, alla vendetta, alla gloria. E davvero non si capisce perché. Non è raccontato il processo psicologico decisivo del film.  E qui c’è lo scarto di falsità del lavoro: abbiamo detto tanto male dell’America, dell’Onu e della NATO, ma i nostri eroi – americani – sono sempre i nostri eroi, e alla fine hanno capito che la libertà e i valori autentici sono prevalenti sui soldi e sulla vendetta.

    Ecco, questo finale è la miglior cosa sul cinema italiano che abbia visto negli  ultimi tempi.

     

 

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