Stati d’animo. Paura di morire, paura di vivere
La guerra di questi giorni scava una voragine dentro e intorno a noi. Altera tutto ciò che viviamo, disinnesca ogni entusiasmo e ci riconduce alle nostre paure. Che secondo me sono essenzialmente due: quella di morire e quella di vivere. Vorremmo fare di tutto per migliorare la situazione, ma per quanto possiamo dare un contributo personale importante non c’è niente che possiamo fare perché si smetta di sparare.
La Guerra ci si mostra come un problema insormontabile e – come sempre quando ci troviamo in balìa di un ostacolo troppo grande – possono accadere reazioni a catena anche dentro di noi, dove invece dovrebbe regnare il nostro Sovrano Interiore, che continua a essere abile e responsabile nel gestire le emozioni e assegnare i significati.
Avere un obiettivo
In questo momento la comunicazione globale ci fa sentire immersi nel conflitto. La sensazione di impotenza diventa anche sensazione di soffocamento, di annegamento. Eppure persino nei lager alcuni formidabili personaggi – che erano anche persone comuni – avevano sviluppato la capacità di continuare a guardare quello che avveniva attorno a loro. Cioè avevano capito che potevano tenere una distanza e che tenerla gli avrebbe permesso di assegnare senso alle cose. Quando dai senso non vieni fagocitato. Quando dai senso è perché vedi, valuti, hai distanza, non sei identificato con quel che ti accade e sai ricondurre una cascata di eventi in un flusso di pensieri connessi.
Per raggiungere questo obiettivo possiamo fare un esercizio: assegnare un senso al giorno a questa guerra. Definire e ridefinire in continuazione la consistenza che ha dentro di noi. Domandarci: oggi cosa mi dice il conflitto? Come mi fa sentire? Non ci sono grandi risposte difficili da dare, non c’è una preparazione particolare da avere. È tutto molto semplice: una risposta immediata, attenta. Quella che sentiamo in quel momento. Che non deve essere giusta per nessuno ma soltanto vera per noi.
Possiamo anche pensare di scriverlo ogni mattina o ogni sera. Oggi sento questo. Oggi quest’altro. In modo da lasciare traccia di un percorso che indipendentemente da dove ci porterà, avrà la caratteristica di averci fatto passare molto tempo con la nostra parte che guarda le cose, che le considera, che le struttura. E meno tempo con la parte di noi che si sente fagocitata e risucchiata nella paura e nello sconforto.
Senso critico. Capire se stessi con un ascolto attivo
Capire se stessi è anche più difficile che capire una complessa situazione internazionale. Ma ha il vantaggio di essere una cosa a portata di mano. Questa guerra può essere usata, come tutto il resto, alla stregua di uno strumento. Un ascolto attivo rivolto a se stessi, che colga, accolga e raccolga sensazioni ed emozioni di ogni genere, può aiutare molto a compiere questa che è una vera impresa.
Un’impresa, sì. Perché se da un lato il nostro rapporto con noi stessi non sembra poter pesare in questo conflitto, dall’altro questo conflitto esiste anche perché non diamo abbastanza importanza a quello che sentiamo in profondità. Non so dove, ho letto che le poesie non servono a niente. Ma il mondo va male perché nel mondo non si trova quello che si trova nelle poesie.
Poesia viene da poieo, verbo greco che significava costruire. Nell’umiltà dei tasselli microscopici che possiamo mettere per la pace, credo che stare con noi stessi, interrogarci e accettare le risposte del nostro cuore, potrebbe essere un piccolo modo di costruire pace in questo tempo di guerra.
Era: Stati d’animo e Senso critico – Esercizi per gestire il conflitto. Di Giovanni Covini
Caro Giovanni, penso che ci siano troppi che guardano se stessi e le proprie sensazioni rispetto a coloro che guardano il mondo e cercano soluzioni di pace per la comunità. La guerra c’è sempre stata, Kosovo, Afghanistan, Etiopia, Yemen, Siria. Non ci ha mai lasciato. Non siamo innocenti, noi che vendiamo armi a tutti, la UE con il casino profughi… siamo parte di questa guerra e per evitarle ci vuole più politica, più azione, partecipazione, associazione. Pressione. guardarci l’ombelico e a utilizzare la guerra degli altri per migliorare se stessi non mi sembra affatto la soluzione. L’ansia è bene che ci sia, forse ci scrolliamo un po’ di indolenza, divanuccio, aperitivo, filmino, piccola attività creativa non ingombrante, due chat un tic toc e via verso il domani. Non funziona e si vede.
Cara Paola,
rispetto le opinioni di tutti e anche questa, pur trovandola del tutto fuori luogo.
Per invocare più ansia per tutti bisogna non avere la minima idea del tasso di suicidi tra i giovanissimi e i giovani.
Bisogna non aver colto quello che è successo negli ultimi due anni e la sofferenza interiore che c’è dentro una marea di studenti e non solo.
Dire quello che si pensa va bene ma non è male anche pensare a quello che si dice.
Guardarsi l’ombelico è diverso dall’avere un dialogo con se stessi: puoi confondere le due cose solo se non le conosci.
Non si usa la guerra per migliorare se stessi, Paola. Si usa proprio tutto per migliorare se stessi, perché se si migliora se stessi si smette di fare la guerra.
Per quanto riguarda “un po’ di indolenza, divanuccio, aperitivo, filmino, piccola attività creativa non ingombrante, due chat un tic toc” non so proprio cosa dire in merito: sento che c’è molto giudizio, ma ognuno parla della vita che conosce. Un caro saluto.
Caro Giovanni, grazie per le tue riflessioni. In questi giorni di guerra, cerco di informarmi, di capire e mi rendo conto di non capire. Mi pervade soprattutto un profondo senso di tristezza. Tristezza per tutto il genere umano di cui faccio parte anche io. Credo sia molto vero che in questa, come in tutte le altre guerre, ci sia una profonda paura di morire e di vivere, paura che ci accomuna tutti. È proprio questa incapacità degli esseri umani di accettare e accogliere la vita per quello che è, a rendermi profondamente triste. Mi domando come e quando gli esseri umani saranno capaci di accettare la vita e di accoglierla senza combattere guerre. Mi sento inadeguata a capire, mi sento piccola, piccola. Sentivo dire che la prima vittima della guerra è la verità, senza realmente capire cosa volesse dire. Ora mi sembra di aver capito qualcosa ma quel qualcosa fa male, fa male a me stessa e a tutto il genere umano. Mi resta la profonda tristezza.
È una tristezza che in alcuni momenti sembra definitiva e inconsolabile. Sono d’accordo con te.