Che ridere Tonino, noi due.

Tu sei un cardigan che trema avvinghiato a un bastone, i pantaloni troppo larghi e usurati, gli occhi puntati al di là della strada vuota verso il semaforo rosso. Io sono quello accanto a te, con la mano in tasca che districa gli auricolari dalle chiavi. Il viale è deserto ma noi stiamo fermi. È fine maggio del 2020, i tuoi occhi frugano il quartiere e si sincerano che sia ancora lì. Il mondo è ricominciato da qualche giorno e si sta rialzando come quando cadi in moto e non sai ancora come stai.

È il 1981 e il mondo sogna con Momenti di gloria, ma l’idea di guardare la storia di due tizi che corrono non mi passa nemmeno per il cervello. Quell’anno cammino per le vie di Milano con la fermata dello Zoo di Berlino nella testa. È Christiane F. la ragazza che vorrei conoscere e tutto quello che scrive nel diario lo racconta solo a me. È con lei sotto braccio che mi siedo sulla poltrona del tuo negozio. Stai facendo la permanente a una signora. Sei giovane, basso e grassottello. Il tuo è un negozietto ma sei uno dei pezzi grossi della scuola per Parrucchieri di Milano.

Mentre tra Christiane e Detlef succedono fatti atroci, spieghi alla signora che il capello ha dei ponti interni che vengono spezzati dal trattamento e che questo gli conferisce poi la forma a ricciolo.

Il 21 Ottobre del 1984 muore François Truffaut. L’ho scoperto da pochissimo vedendo per caso il suo penultimo film: La signora della porta accanto. Fanny Ardant, Gérard Depardieu e nient’altro. Amarsi, perdersi, ritrovarsi, riprendersi, riperdersi. Per la prima volta percepisco la sensazione di un film che era da sempre dentro di me. Qualcosa di archetipico, selvaggio e profondo che è semplicemente riemerso a colpi di bellezza.

Stavolta non c’è nessuno quindi mi siedo direttamente io. Chiacchieri, chiacchieri sempre. Ti informi, dai consigli sulla vita. Una saggezza buona, da bar. Non il bar dell’alcolico ma quello del caffè della mattina presto. Una saggezza da lavoratore vero, che si è fatto da solo e non molla un giorno. La velocità delle lame vicino alle orecchie, la cautela con cui la forbice si posa sulla pelle nei tocchi di fino. La butto là, per fare colpo su di te.
“Tonino, ma è vero che il capello ha dei ponti interni che vengono spezzati dal trattamento per fare la permanente?”
Ti blocchi, mi squadri.
“Certo che è vero. Chi te l’ha detto?”
“Ma un paio di anni fa lo dicevi a una signora qui da te”

Fai una pausa. “Bravo! Sei intelligente, perché ricordi le cose”

Tanto intelligente non sono, se trovo il latino intraducibile e la matematica di un altro pianeta. Ma in molti momenti difficili ripenso a quella frase e il tuo negozietto rimane ancora oggi un angolo di memoria in cui sono stato apprezzato.

Poi cambio casa e dal negozietto non passo più. Per anni. Sono quelli di Melanie Griffith che mi travolge quando è Una donna in carriera e mi tocca il cuore come poche altre volte quando è Emily, la detective newyorkese di Una estranea fra noi. L’ultima inquadratura rimane stampata nel mio DNA. Decido che quel primo piano è il cinema secondo me.

Nel frattempo il mondo gira. Gli anni ’80 sono finiti e qualcosa di oscuro si muove. Scoppia Mani Pulite e il sottofondo è il bosco vicino a Quantico, dove la recluta Clarice Starling si sta allenando per diventare un’agente dell’F.B.I. Inizia per me l’epoca di Jodie Foster e mentre le indagini decapitano la politica italiana, dentro di me pulsano le parole di Hannibal: “E come iniziamo a desiderare? Leggi Marco Aurelio: guardando quello che c’è intorno”. Il mio amore per il cinema scende in una profondità diversa. Comincio a sentire che per questo tipo di immersione il prezzo è la solitudine. Vale per tutte le esperienze di profondità, ma in quel momento non lo so.

Per tutti gli anni ’90 non ci vediamo. Un decennio di salita pura che si chiude con il sorriso costruito e splendente di Gwyneth Paltrow in Shakespeare in love, prima del finale incandescente del decennio. Il congedo dal mondo di Eyes wide shut, la lotta intestina di Fight Club, la visione ancora incompresa di Matrix e lo splendore di American Beauty. È un momento in cui persino a noi riesce benissimo un film. È il primo di Gabriele Muccino: Come te nessuno mai. E purtroppo mai più.

È nei primi anni 2000 che ripasso davanti al negozietto. E a quel punto lo trovo chiuso. Mi fermo un momento a guardare e dentro di me sono sicuro che non ci sei più.

Cambio casa di nuovo e inizio a lavorare in Paolo Grassi. A duecento metri dal tuo regno, che oggi è riaperto ma è diventato tutt’altro.

E poi ci ritroviamo così. Al semaforo. Tu con le mani che tremano, io senza un capello in testa. Per un momento penso di dirti: “Tonino, che me la dai una spuntatina?”
Ma sono anni che ho scelto di evitare. Non mi servono più le parole per sentire vicino qualcuno. Sto come te, con la strada deserta e il semaforo rosso. Quello che abbiamo vissuto è tutto dentro di noi, anche se il cervello non ci arriva più. Non si perde niente nel nostro sentire.

E allora eccoci qua, Tonino. Questo è il 2021.
Nessun film in programmazione.

Che ridere adesso, noi due.

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