Se una parte del mio presente funziona è per la spudorata benevolenza di molte Capitanerie di Porto. Quelle che non hanno controllato il mio carico né questionato sulla bandiera che battevo, né chiesto il giusto compenso per l’acqua che ho bevuto e il suolo su cui mi sono adagiato sfinito.

Senza queste Capitanerie fatte di sguardi che mi hanno perdonato, silenzi che mi hanno coperto, sconsiderata fiducia in non si sa quale aspetto di me, fatte di parole ripetute infinite volte perché io le capissi, di errori che non mi sono stati fatti pagare, senza questa disobbedienza al buon senso che avrebbe imposto l’affondamento immediato della mia barcarola, non sarei arrivato a questo punto del viaggio.

Poi c’è stato anche il vento a favore. Quando le intese sono così forti che sembra di volare. È così leggero abitare l’amore che mi sono dimenticato dei piloni dei tiranti e degli stralli . Eppure sapevo perfettamente che si trattava di un ponte, che l’uomo può costruire un cammino in mezzo al cielo ma non può volare. Ho bisogno di amore proprio perché non sono l’amore, sono fatto di una materia diversa e devo progettare costruire e manutenere qualunque provvisoria intesa perché questo è il peso specifico della leggerezza.
Quanto più sogno tanto più le mie mani si impastano di cemento armato, cavi d’acciaio e pazienza.

Eppure.

La Capitaneria del mio Porto è sempre all’erta. Ci sono persone e cose che non possono attraccare. Non so cosa scriveranno su questa pagina del loro viaggio ma la mia Capitaneria non si piega e non retrocede di un passo.
Tiene duro e non ha paura del dolore degli altri. Le sono molto chiari i concetti di confine di casa di diritto e di lingua. Pesa su una stadera truccata l’import export e tiene il saldo del dare e avere. Ha temerari giochi di parole per battezzare gli estranei oltre la rada e nessun silenzio per ascoltarli.

So che dentro di me è così e so che come è dentro così è fuori. La chiusura dei Porti è la mia politica nonostante la loro apertura sia stata infinite volte la mia salvezza.
Ah sì. C’è anche un Capitano. Una sorta di SuperGio’ che indica alle Capitanerie le meravigliose sorti e progressive del mio Paese.

Una cosa so per certo. Che questo Capitano non comunica con le sue flotte ospitate da altri Porti. Forse non lo sa. Se lo sapesse e le amasse farebbe di tutto per accogliere chiunque e mettersi almeno in pari.
Il Capitano ha una malintesa idea di forza. La sua è una forza che non contatta la debolezza. Il popolo interno che lo sostiene tanto ardentemente dentro di me non considera questo fatto. Quando il debole sarò io si occuperà di me? Tutte le volte che lo sono già lui scompare per imprese che non conosco.

Ma questo Capitano ha anche una malintesa idea di Capitano. Il Capitano mi dovrebbe insegnare la rotta, la scoperta, dovrebbe leggere il mare con le sue correnti e saperle attraversare. Il Capitano è il condottiero di un viaggio, che quando posa il piede a terra non vede l’ora di ripartire. Questo mio Capitano non vuole che entrino stranieri ma non mi spinge nemmeno a uscire per incontrarli. Non vuole che io sogni orizzonti, non mi aiuta a raggiungerli e neanche a desiderarli. Sarà forza o paura?

Il tempo di questo mio Capitano passerà. La tempesta dell’ignoranza deve ancora sfogare la sua forza e nessuno può dire dove potrà arrivare. Niente di buono in vista e non so se si possa far nulla per fermare questa violenta perturbazione.
Ma è questo momento della Storia ed è scritto dentro di me. Lo abito ma anche mi abita. È il risultato anche di quello che c’è dentro di me.

Allora voglio dire grazie a tutti quelli che mi hanno accolto nelle più diverse forme in cui si può accogliere un naufrago e chiedo scusa a tutti gli stranieri che tengo oltre la rada.
Attraversiamo questo tempo con il passo della salita. La cima c’è, anche se da questo punto non si vede.

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