Semaforo e cielo

Il Venerdì Santo del mondo

Aprile scocca un tramonto radente sui prati davanti alle mie finestre, rimbalza sul guard rail ai bordi dei campi e tinge d’arancio le mie pareti per circa mezz’ora. La periferia è il confine tra mondi e qui le strutture urbane se la giocano con i fagiani, le nutrie, i germani e gli aironi. Le lepri, soprattutto al mattino presto.

Mentre giro una serie di time lapse di questi tramonti, penso a questo Venerdì Santo. Il Coronavirus lo ha trasformato da credenza religiosa soggettiva a esperienza laica collettiva. La sospensione forzata tira una riga di silenzio su cerimonie apparati canti simboli precetti orari  paramenti processioni confessioni comunioni scambi della pace benedizioni preghiere formule eccetera. E ci precipita dalla celebrazione all’esperienza diretta, dalla ritualità della messa alla messa alla prova della realtà.

Il Venerdì Santo quello vero, quello che ci tocca credenti o non credenti nella vita, non è programmabile come una funzione in Chiesa. Non scegliamo noi il nostro dolore, non scegliamo quando sentirlo né dove. Non scegliamo noi la morte e se lo facciamo è perché la preferiamo al peggio, non certo perché fosse nei nostri desideri di bambini.

Il Venerdì Santo quello vero non si organizza. Non si fa su appuntamento, anzi si cerca di evitarlo. Il digiuno che impone non dura un giorno, non fa discriminazioni per età e salute, non è puntuale in un luogo ma più pandemico di questo virus. È in ogni luogo e momento in cui muoiano qualcuno o qualcosa.

Nel Venerdì Santo quello vero non c’è nessuna promessa di rivedersi a Pasqua per un momento di gioia, come dicono i preti. (Me lo sono sempre immaginato questo fatidico momento di gioia. Un momento eh, uno solo. Al mio tre. Ecco.)

Vedo in questo silenzio imposto una grande provvidenza. Stavolta lo facciamo davvero, il Venerdì. Meno celebrazioni e più esperienza. Credenti e non credenti, come è sempre stato. Ed è ovvio che sia così, perché il Venerdì Santo non è il giorno di chi crede: è il giorno di tutti. La fede riguarda la Domenica ma nel Venerdì in cui si muore non c’è bisogno di credere, basta un giornale radio.

E nonostante la pulizia mentale che questo silenzio può portare con sé, un pensiero da Venerdì Santo che da bambino ho sentito ripetere infinite volte continua a tampinarmi: Dio ha mandato suo Figlio sulla terra a morire per riscattare il peccato dell’uomo.

Okay. In pratica: Dio Padre ha mandato suo Figlio a morire in un modo orrendo per riscattare gli uomini presso se stesso. Non so se mi spiego.

È una prospettiva che troverei quasi comica, se non ci sentissi tutto il peso di secoli di oppressione e di oscurità, di rinuncia alla ragione e al buon senso anche minimo sindacale. Ho molto rispetto per chi pratica un cattolicesimo ortodosso, ma mi domando come si possa rinunciare così tanto al pensiero.

Sempre per buon senso – se ce n’è uno e per chi ci crede – la vedo più come se Dio avesse detto: “Ecco, guarda: la peggio cosa che potevi farmi, io la trasformo in un regalo per te”. Tipo acqua che diventa vino. Sempre che ci si creda. Ma almeno questa sarebbe davvero una trasformazione di significati potente, che ribalterebbe la vita a esserne capaci.

Il Venerdì Santo del mondo è qui, ci siamo dentro. Stavolta ci siamo dentro davvero. Sento questo dolore collettivo e al tempo stesso sono grato di questo silenzio, della verità di noi stessi che forse adesso ci è un po’ più vicina.
Muovo passi incerti tra l’aldilà e l’al di dentro.
Sento che il mio spirito non soffre la mancanza di nulla. Non mi mancano nessuna messa, nessun appuntamento, nessuna occasione sociale.
Amo fare parte di questo momento, amo esserci dentro.
Amo pensare a questo Venerdì.
Amo pensare che è Aprile.

Era Il Venerdì Santo del mondo, di Giovanni Covini

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