Nero. Musica tesa, livida. Una specie di singhiozzo scandito dagli archi di George Delerue. E dopo 4 secondi in assolvenza, vediamo una camionetta della polizia procedere in un’alba deserta con la sirena. Un fly over (macchina dall’elicottero) che assieme alla colonna sonora è già la quintessenza del film. Che è un film sull’incontenibilità del cuore. Sull’impossibilità di vivere ignorando una parte di noi, quella che ci dà più fastidio o quella che temiamo di più. O magari anche solo quella che conosciamo di meno.

In questo assioma ci sono già le forze contrapposte che si muovono in tutta la storia. La geometria della mente e il magma ribollente del cuore. Lucidità e istinto, apollineo e dionisiaco, matematica e sangue. Una partita tra due parti di noi che diventa il linguaggio di questa storia. In questo inizio c’è già tutto. Il fly over ci dà la sensazione del fato, dell’inevitabilità. Vedere il mondo dall’alto ci fa vedere le nostre storie nell’ottica del destino che ci trascende, del fato che ci sovrasta. Visti da sopra siamo piccoli piccoli e il fatto che il film inizi a tragedia avvenuta – per poi tornare indietro – ci fa sentire l’inevitabilità delle cose. Come dire:  inutile agitarsi, non c’è più niente da fare, non c’è  e non ci sarà mai niente da fare.

Ma intanto che la camera dall’alto ci fa sentire questo, la musica freme e pulsa di passione. E’ un gioco abilissimo: ti guardi da sopra e ti senti da dentro. E su questo – essere fuori e dentro di te allo stesso tempo – si innesta la voce narrante. Qui inizia il riferimento fortissimo al teatro classico. Entra un personaggio che a tutti gli effetti è un personaggio – coro. Fuori dalla storia ma partecipe della storia. Come la musica e il fly over: sopra le cose e nelle cose. E come la musica comincia prima dell’immagine, così anche il personaggio coro inizia a parlare prima di mostrarsi. Metodico fino al millimetro.

Ora la donna è in primo piano. E ci dice chi è, come si chiama e cosa fa. E nel dirlo dichiara la presenza della macchina da presa, la sposta indietro affinché ci mostri la sua gamba menomata. Che cosa sta facendo veramente? E’ Truffaut in campo che ci dichiara il suo gioco: questa è la storia di un mondo che sembra sano e normale e che invece si porta dentro una ferita che sanguina. Ma scoprirla sarà tutto un percorso. E accettarla non ne parliamo. Questo è il motivo del pull back della camera che allarga la donna fino al campo medio. Un movimento indietro della macchina che rappresenta il percorso drammatico di tutto il film.

Dietro di lei, giocano a tennis. E lei è la gestrice di questo circolo. Un’informazione che ci comunica il livello sociale in cui questa storia si svolgerà, ma anche un segno filmico di match, di sfida. Due sessi, due parti di noi, due anime, due famiglie. Tennis. E la colonna sonora viene affiancata in questo fraseggio dal rumore delle palline e delle racchette. Ora la donna dice che qui tutti la conoscono e che lei conosce tutti. Un modo per prendersi un’autorità narrativa e per definire il suo ruolo di dentro e fuori la storia. Sappiamo che possiamo affidarci a lei, che ci porterà per mano, che sa quel che fa. Sappiamo che la storia è finita male, in modo da non disperdere energie in una suspence che sarebbe fuori vena narrativa. Non è questo che c’è in gioco.

A 1′:29″ entriamo nella vicenda. Può accadere che una casa sia il personaggio principale di una storia. Ma questa volta si tratta di due case, dice la nostra narratrice. Truffaut ricontatta il teatro classico. La pianta caratteristica della commedia di Aristofane e poi di Plauto: una piazza, due case e una strada nel mezzo. Solitamente qualcosa succede tra i membri dell’una casa e dell’altra. Impianto caratteristico da commedia classica. Fu Machiavelli a modificarlo per primo, con la Mandragola. Perché fra le due case che davano sulla piazza, in luogo della strada che si perdeva, aggiunse una chiesa.

Ma Truffaut lascia la strada della commedia di Aristofane. Già da questo totale ci rendiamo conto che le due case sono alternative e speculari l’una all’altra. Una con infissi bianchi e tutti aperti, l’altra con infissi scuri e chiusi. Una abitata, una da affittare. Una è la casa della vita, l’altra quella della morte. Una la casa del pieno, una la casa del vuoto. E poi ecco la famiglia, che posa per una fotografia ideale che non è mai stata scattata. Narrazione che denuncia se stessa. Convenzione. Truffaut gioca a fare il chirurgo e ci fa vedere i ferri. E ci sembra impossibile – dopo tanto distacco – che ci appassioneremo fino a star male per questi personaggi.

Le due case sono raccontate in modo simmetrico. Diverse nel merito uguali nel metodo. Totalino e stacco in asse più stretto sia sull’una che sull’altra. Sono diverse ma già legate da un destino sic.. sic. Ed ora la chiusa della prima sezione del film: Come potete vedere dal cartello affisso sulla porta, la casa era disabitata… quando tutto è cominciato. Il mondo sta per cambiare. Un’automobile compare in fondo alla via, si avvicina. La storia comincia e il time code segna 2′ 00″. I primi 2′:00″ de La signora della porta accanto sono finiti.

 

0 risposte

  1. Torna tutto, il gioco dualistico tra le due case, le due famiglie e i due lati dentro ognuno di noi, dentro il protagonista che entrano in conflitto tra loro; E’ come se le case rappresentassero le due parti profonde di lui e di lei. La natura semplice, ordinata e quella selvaggia, caotica.
    Bellissimo come ha lavorato con le inquadrature, hai colto alcune finezze che non riuscivo a cogliere;

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