Alla fine di tutto il percorso pare che debba comparire, nei film ben scritti, il “senso metaforico” della vicenda. Il senso che vale per tutti, che è qualcosa – questo sì – di pericolosamente vicino al ‘messaggio’. Si trova di solito negli ultimi stacchi, quando in piena risoluzione, dopo il picco del terzo atto, il mondo viene mostrato cambiato nella sua totalità.

    In teoria, se questo momento è ben scritto, dovrebbe scorrere come su due binari: uno è quello drammatico (ecco come il nostro eroe ha modificato la propria vita e quella degli altri) e uno è quello tematico (ecco come vanno certe cose).
Di risoluzioni ce ne sono infinite, di infiniti livelli. Il volo suicida nella fornace ardente di Alien 3, la telefonata di Hannibal Lecter a Clarice Starling, il girotondo di Fellini, la lenta camminata dei protagonisti tra gli uccelli momentaneamente fermi di Hitchcock. Finali che significano qualcosa indipendentemente dalla vicenda che li ha preceduti, e che si imprimono nella nostra memoria per la profondità assoluta del gesto, dell’immagine, della parola. Poi ci sono finali che si perdono, che non riescono a rimanere negli occhi e nel cuore. Questi ce li siamo dimenticati.

    Ma ci sono due punti particolari su questo finale metaforico. Il primo è che per quanto metaforico, un finale dovrebbe sempre scaturire dall’interno della necessità drammatica. Niente colpi scorretti, niente risoluzioni pacchiane, niente cambi di cifra linguistici per dimostrare quello che volevamo dimostrare. Il finale metaforico secondo me può essere solo il frutto di un’abilissima operazione nella quale lingua e significato si intrecciano: mantenere la lingua, portare alle estreme conseguenze il significato, non alterare la logica con la quale i fatti si sono mossi per tutta la storia.
Altrimenti, e questo è il secondo punto, il finale si scuce. E diventa la prima fase del “dibbattito”. Una zona già separata dal film e che fa da cuscinetto con i titoli di coda. Che non mostra ma dimostra, che non racconta ma commenta. Qui crollano moltissimi dei film che hanno uno spessore ideale, filosofico o spirituale importante. O che vorrebbero averlo.

    Il finale è un momento rischioso perché è il momento della fiducia. Fiducia nella propria storia: che sia di per sé chiara, coinvolgente, convincente. Fiducia nel proprio modo di averla raccontata: che non ci sia bisogno di spiegarsi, né di chiosarla per renderla più nitida. Fiducia nelle proprietà intellettive ed emotive del pubblico: che sia in grado di capire senza che gli si spieghi proprio tutto. E quindi che sappia cogliere un finale forte ma che non si separi dalla storia. Che sappia leggere un finale che rimanga un punto interno della vicenda senza cercare di fare da ponte esplicativo tra la vicenda e lo spettatore.

    Come si vede, l’arco si compie in un percorso di progressiva emersione del senso: dal desiderio inconscio del personaggio, alla chiarezza del senso metaforico di tutta la vicenda. Credo che ogni momento storico abbia le proprie particolari attenzioni verso l’una o verso l’altra dimensione. Oggi sono convinto che il momento più toccante della storia sia il passaggio tra l’inconsapevolezza del desiderio e la presa di coscienza di sé. Una specie di risveglio, l’inizio della primavera.

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