Da un blog complesso e difficile prendo uno spunto che ritengo prezioso, scritto da Marco Bianciardi. Rimango colpito dalla capacità di altre discipline e di altre persone di parlare di quel di cui mi occupo ogni giorno con maggior precisione, con più consapevolezza. Una fertilizzazione incrociata che mi piace infinitamente, pure nella difficoltà – per me – di affrontare nuove lingue e nuovi modi. Il blog in questione è http://ripensarebateson.wordpress.com/.

Credo sia possibile sperimentare, nelle relazioni umane, e a volte anche in psicoterapia, rari momenti in cui sembra di incontrare l’altro in un luogo ’sacro’: quando ci pare di incontrarlo, ad esempio, là ove qualcosa di non detto cerca di farsi parola (e questo, naturalmente, vale anche nell’incontro con noi stessi…).
Sto pensando ad un momento di un incontro psicoterapeutico: Anna sta parlando di quanto soffre nell’immedesimarsi nel figlio quando questi si ritrova a essere escluso dai compagni di gioco. Improvvisamente piange, dice di rendersi conto di essersi sempre sentita ’sfigata’ – pur riconoscendo che nulla di obiettivo pareva giustificare una immagine di sè così negativa. Nei successivi, intensi, minuti del colloquio riflette su come questo narrarsi e vedersi come ’sfigata’ sente sia emerso all’interno della relazione con la madre, pur senza che mai tra di loro se ne facesse parola.
Il mio sentire è che Anna si sia accostata a uno dei luoghi, segreti a noi stessi, ove prende forma il racconto di sè a se medesimi che ci accompagna poi, ininterrotto, per tutta la vita… racconto che, inevitabilmente, prende forma appoggiandosi al racconto, di solito implicito, che l’altro fa di noi. Là ove il raccontarsi e l’essere raccontati paiono coincidere; ove il come il soggetto narra a sè di se medesimo non appare ben distinto da come l’altro narrò di lui.
A ben vedere, ritengo si tratti precisamente del luogo ove si articola la misteriosa relazione tra elemento e contesto: là ove l’individualità si distingue ponendosi come soggetto di una narrazione, la quale emerge da (si appoggia a, si nutre di, è sottomessa a) il racconto dell’altro, e/ma grazie a ciò inizia a partecipare in modo autonomo ad in-tessere quel contesto di relazioni da cui sta distinguendosi…
E si tratta, anche, di un luogo ove l’immagine che la narrazione costruisce rappresenta e nello stesso tempo è il soggetto che in essa si pone, si pro-pone, e si aliena. Anna è ’sfigata’ o l’immagine di sfigata rappresenta Anna ? L’uno e l’altro, evidentemente, altrimenti Anna non ne piangerebbe, non sarebe così commossa (nè lo sarei io), e non soffrirebbe immedesimandosi nel figlio.
Bateson parla di questa combinazione: “Ebbene, io ritengo che l’uso più ricco della parola ’sacro’ sia quello che rende importante la combinazione, l’unione delle due accezioni, e ritengo che ogni loro separazione sia, per così dire, antisacra (…) il pane è e insieme rappresenta il corpo” (G. Bateson, “Ecologia della mente. Il sacro”).
Naturalmente Bateson sta parlando del rischio di ’separare’, di ’scindere’, di misconoscere una articolazione sempre problematica e comunque sempre presente. Io sto parlando, invece, dell’esperienza soggettiva là ove questa articolazione pare collassare, fare corto circuito, sovrapporre e confondere i due aspetti.
Sto ricordando che, sebbene sappiamo che la mappa non è il territorio, e che il racconto, lungi dall’essere ‘vero’, traduce e tradisce, propone ed impone, vi sono pur sempre luoghi segreti dell’esperienza soggettiva ove mappa e territorio, per il soggetto, coincidono: ove sentiamo di poggiare i piedi per terra, ove, soggettivamente, le cose sono proprio così, ove, forse, siamo unacosasolaconl’altro: ove siamo ciechi, anche – e forse lo siamo inevitabilmente e necessariamente.
Propongo quindi che l’incontro con l’altro venga vissuto come sacro quando il farne parola (a volte per la prima volta) permette una articolazione di ciò che era sovrapposto e confuso, permette di sentire anche come rappresentazione ciò che prima semplicemente era: veniva vissuto come un dato di realtà.
L’esperienza soggettiva è l’inesausto narrare a sé di se medesimi, ma per tutti noi ciò avviene a partire da luoghi nascosti ove ciascuno è, ancora, unacosasolaconl’altro: là ove l’in-fans, per farsi ‘uomo’, si alienò nel racconto dell’altro, vi si appoggiò, vi si fece irretire…quando di questi racconti originari possiamo fare parola ad un altro l’incontro ci dona momenti che definirei sacri.

Marco Bianciardi.

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