Vediamo dunque la scena. La situazione è la seguente: Delphine, la protagonista, non sa dove andare in vacanza e nemmeno con chi. Il dramma è squisitamente borghese e diremmo noi anche abbastanza inutile se non fosse che chiaramente vuole rimandarci a qualcos’altro. La vacanza è il tempo della libertà, della gioia di vivere, dell’abbandono, anche del silenzio e della pace. E sono proprio queste le cose che Delphine non riesce a vivere. Non è libera dalle proprie paure e dalle proprie insicurezze. Rohmer in questa scena costruisce un contesto che viene inquadrato all’inizio: a sinistra macchina l’amica bruna vestita di nero con gatto nero in braccio. A destra macchina l’amica vestita di bianco su fondo verde chiaro, luminosa e bionda. In mezzo, Delphine che discute con l’amica vestita di rosso.

Due estremi contengono questa discussione: la morte – la ragazza nera –  a sinistra macchina; la vita – la ragazza bionda –  a destra macchina. Sono gli estremi dell’esistenza, entro i quali ogni dramma viene contenuto e agito. Ora veniamo al conflitto centrale: Delphine contro l’amica. Delphine ha il pallore di chi non vive, non ha sangue, non ha un rapporto fisico reale con la realtà. L’amica invece è vestita di rosso, lei sì che sente e vive tutte le cose, dal cibo all’amore a tutto il resto. E’ più materica e accesa e tenta di smuovere Delphine. Le due donne sono amiche ma alle loro spalle Rohmer le separa con il muro della casa. L’amica ha profondità e prospettiva, ha aria dietro di sé e volume. Delphine è spalle al muro, perché lo è nella vita. Piatta, schiacciata.

Ma… su tutto questo insieme medio borghese che Rohmer ci racconta soffia il vento. Possiamo osservare il telo giallo appeso ad asciugare alle spalle di Delphine. E’ acqua asciugata dal vento, voglia di muoversi e abbandonarsi contro la  resistenza delle mollette, è cambiamento continuo di forma nella fissità della posizione obbligata. E’ voglia di vivere e di impazzire di felicità contro le remore e le paure. Insomma: quel telo giallo è Delphine che si agita per uscire dall’angolo in cui si trova.

Rohmer stacca pochissimo durante il dialogo. Non gli serve, l’inquadratura vista in questo modo è fin troppo carica di azione e di dramma. Stacca o apre per dare un respiro un paio di volte. Ma ci sono  cose molto interessanti nella coreografia interna allo spazio. A sinistra l’amica nera – inquadrata solo due volte, è il lato della paura profonda di Delphine. Difatti è inquadrata a stacco, cioè non è collegata alle relazioni, è separata, dicotomica. E’ – appunto – la paura e come tale è solitudine. Accarezza un gatto nero con quel filo di ironia tipico di Rohmer. Dall’altra parte, invece, ferve la vita. L’amica rossa agita lungamente e nervosamente un cucchiaino. La donna bionda e chiara si serve da bere e muove cose. Sempre in relazione con il movimento, la materia, gli oggetti. E’ la vita, l’altra parte della cosa.

Ecco ricondotta allo spazio scenico la tensione interiore del personaggio protagonista. Potremmo, avendone voglia, riguardare di fila la scena senza fermarla. Osservare il telo giallo che sventola inquieto dietro Delphine. Vederci la sua anima in cerca di libertà e di riferimenti insieme, in preda alle sue contraddizioni. Sentire la macchina di Rohmer che si muove intensa e silenziosa, senza disturbare, fra i personaggi. Che li separa da tagli o li unisce in panoramiche per dirci di relazioni tutt’altro che superficiali. E al tempo stesso continuiamo soltanto a vedere quattro amiche che prendono il the. Ma se ci lasciamo toccare dalla forza di questi segni potremmo riuscire a vedere tutto il cinema che c’è nella vita normale. In quel  telo che sventola là dietro, si muove tutto il genio di Rohmer.

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