Sono a cena e sto chiacchierando con mio padre. Giada non c’è e i bimbi stanno andando a letto. Arriva l’sms di Luca: Gio, si può dire che Il silenzio degli innocenti è una storia d’amore impossibile? Rispondo automaticamente: Dell’amore impossibile verso se stessi. Sms conclusivo di Luca: Questa me la dovrai spiegare. Devo a Luca una quantità di esperienze soprattutto enologiche, vini che non mi sarei mai potuto permettere e che probabilmente non avrei comunque acquistato. Degustazioni paradisiache che associano il sapore e l’odore alla storia, alla scienza, all’arte. Avete mai sentito Luca Giovanelli parlare di vino? E’ veramente qualcosa.
Non posso rischiare di perdere tanta fortuna e quindi mi prodigo in un tentativo raffazzonato di risposta, maledicendo la parte insana di me che non mi ha fatto rispondere al suo sms con un semplice: massì. Visto che mi ci sono cacciato, mettiamoci al lavoro. Come sempre il punto è scoperchiare il legame sotterraneo che c’è fra gli eventi e quello che comportano. Tra quello che ci succede e quello che ce ne facciamo. Tra quello che diciamo e quello di cui stiamo parlando. Piani diversi che troppo spesso facciamo coincidere. Come se la superficie fosse tutto o come se quello che sta in profondità non potesse mai veramente essere intravisto da fuori.
Qual è il punto di fragilità profondo di Clarice Starling? Il suo senso di colpa. Un senso di colpa che vuole riparare risolvendo il problema del male nel mondo, intorno a lei. Diventando una donna F.B.I. con un distintivo che dica a tutto il mondo in modo chiaro e inequivocabile: lei è dei nostri, lei è buona, lei è dalla parte giusta. Ecco, la nostra voglia di separare la parte giusta della vita da tutto il male. Ma naturalmente le cose non sono separabili. Osama che manda un messaggio ad Obama. Una metafora straordinaria che la casualità ci offre. Buoni e cattivi sono così diversi? E soprattutto quali sono i buoni?
Il fatto è che il senso di colpa di Clarice non è riconosciuto da lei: è Hannibal Lecter che glie lo svela. E’ un percorso aspro e difficile arrivare a capire il problema che abbiamo dentro. Quando Clarice incontra per la prima volta Hannibal, il custode della prigione le dice di non avvicinarsi troppo, di tenersi lontana dalle celle mentre percorre il corridoio. E soprattutto di non avvicinarsi a lui, nemmeno al di là della protezione. Invece lei si avvicinerà, non può fare altrimenti. E la protezione non è di sbarre come per tutti gli altri, è di vetro. Il vetro è uno specchio, Jonathan Demme ci sta dicendo che Clarice e Hannibal sono la stessa persona. Si specchiano l’uno nell’altra. Per questo si leggono così bene. E la paura di avvicinarsi è la paura che tutti gli uomini di buon senso hanno di avvicinarsi a se stessi, di frequentarsi davvero.
Hannibal conduce Clarice a riconoscere qual è il vero motore delle azioni che compie: gli agnelli che lasciava morire quando era bambina, che sentiva gridare sgozzati senza poterli salvare. Senza poterli salvare o… senza aver fatto abbastanza per loro? Hannibal conduce Clarice al nucleo rovente della sua vita. Al problema che sta sotto. Al senso di colpa che tutti conosciamo molto bene.
Mai come in questo film è chiaro che l’altro è il nostro inconscio davanti a noi. Hannibal è l’estroflessione di Clarice, del resto se gli agnelli che Clarice ha mangiato e le vittime di Hannibal potessero parlare, non direbbero cose molto diverse. Il silenzio degli innocenti è solo un thriller se lo pensi nei termini di buoni e cattivi. Ma se lo pensi in termini di Osama ed Obama, cioè in termini di un riflesso simmetrico lievemente distorto, dove buoni e cattivi non si capisce più dove stiano, dove si sente che sono la stessa cosa perché uniti da una danza complice e nemica al tempo stesso, diventa un film straordinario. Noi siamo Clarice, noi siamo Hannibal. Sono la stessa persona e vivono entrambe in noi.
Amare noi stessi quando scopriamo in noi il senso di colpa, il male, rimanere empatici e solidali con noi stessi quando capiamo di avere addirittura paura di quello che ci si muove dentro, restare sereni quando sentiamo di aver messo in un carcere di massima sicurezza una parte delle cose che vivono in noi… non è un lavoro facile. Nessuna azione è priva di una radice interiore. Un fatto esterno è un passo interiore, perché noi assegniamo significati alle cose e le storie sono percorsi di assegnazione di senso ai fatti. Fuori e dentro vanno insieme. Ogni passaggio dell’indagine di Clarice per prendere Buffalo Bill è un passaggio che compie per prendere se stessa. E alla fine, quando sente la telefonata di Hannibal che è scappato e che presto ucciderà di nuovo, capisce di essere diventata una poliziotta e una donna. Accetta che il male ci sia e non smette di combatterlo fuori e dentro di sé.
Caro Luca, bisogna soltanto berci su. Ma per questo mi fido di te.
Grazie Giovanni….. grazie Luca!
caro giovanni, ancora una volta ti sento parlare dei famosi primi dieci minuti…. e un altro tassello si aggiunge. un abbraccio
Lego i due ultimi spunti.
Ho visto “il Raggio Verde” di Rohmer a 19 anni, appena uscito. Un amico poeta mi aveva decantato la bravura del regista e la sua delicatezza. Il film non mi piacque, mi procurò dall’inizio un disagio, un fastidio sottile, che culminò con un rifiuto totale. Non volli vedere più nessun film di Rohmer.
Ho rivisto “il Raggio Verde” qualche anno fa in televisione, una sera, da sola. Ho pianto e neanche poco.
A 19 anni non ero pronta ad accettare la mia fragilità, mi spaventava. Delphine, l’immagine riflessa nello specchio, andava confutata e rifiutata per poter andare avanti. Non c’erano altre risorse se non inventarsi una forza, una capacità di resistere e di essere.
Oggi riconosco l’immagine, si, sono io. Sono così, non mangio carne e a volte sono a disagio perfino con me stessa. Ma va bene, va bene.
Oggi forse ci sono altri riflessi nello specchio da temere. O forse no. Una volta riconosciuto lo specchio in quanto tale, forse s’impara a lasciar scorrere le immagini senza trattenere ciò che non serve. O forse no…
Un abbraccio e grazie per questi spunti. Funzionano…