L’altro giorno ho scritto questo pezzo per Liberamente, la rivista della scuola di mio figlio. Ma essendo l’articolo parso un po’ “difficile” alla redazione, lo giro sul blog. Eccolo qua.

 

Negli anni ’70 un gruppo di antropologi andò in Africa per studiare usi e costumi di due tribù cannibali. Queste tribù erano rivali. Avevano regole ferree per i loro combattimenti. Le donne per esempio non venivano toccate mai. Era una questione fra uomini. Quando gli uni catturavano un uomo degli altri non lo uccidevano: lo portavano al proprio villaggio e lo facevano prigioniero.

Ma la prigione che gli veniva approntata era alquanto particolare. Veniva completamente rasato e veniva rivestito con gli abiti della tribù che lo aveva catturato. Gli veniva data una capanna. Gli veniva data una donna. E poteva partecipare alla vita del villaggio, alle feste, alle cerimonie, ai momenti di comunità. Ma sapeva che a un certo punto sarebbe stato ucciso e mangiato. Talvolta veniva preso in giro dai suoi carnefici: indicavano parti del suo corpo e dicevano che l’avrebbero assaggiato volentieri.

Nessuno scappava. La tribù d’origine non avrebbe più voluto indietro il proprio soldato. La sua donna lo avrebbe rifiutato. Era andata così e questa era la vita.

Poi, il giorno arrivava. Il villaggio si riuniva in cerchio, in mezzo veniva posto un ceppo di legno. Il condannato veniva fatto sedere. Arrivava il boia con una mazza, poiché la morte veniva data con la rottura del cranio. Ma prima di uccidere, il boia cantava per il condannato. La canzone era rituale, diceva in sostanza: tu hai mangiato molti dei nostri fratelli e dei nostri padri, ora muori e restituisci quello che hai preso. Il condannato ascoltava questo canto e rispondeva a sua volta cantando la sua ultima canzone: Pazzi che siete, poiché io ho mangiato molti dei vostri fratelli e dei vostri padri, mangiando me e bevendo il mio sangue, voi mangiate voi stessi e bevete il vostro stesso sangue. Quindi il boia eseguiva l’opera e uccideva il condannato.

Perché ci interessa oggi questa storia? Perché quel che non avviene più a livello fisico avviene a livello culturale. Che cosa fanno davvero queste tribù? Cucinano, rendono commestibile ciò che inizialmente non lo è. Dando una capanna, una donna, un vestito, una partecipazione alle feste e alla vita sociale del villaggio stanno compiendo un’operazione terribilmente sofisticata: rendono simile il diverso. Rendono digeribile l’indigesto. Rendono intimo l’estraneo. Gli cambiano l’identità, la natura, il dna.

Ora, se per assurdo decidessimo di allenare la nostra bocca a bocconi sempre più grandi non arriveremmo comunque a superare i nostri limiti morfologici. Non basterà l’allenamento più duro e ostinato per masticare una bistecca tutta intera.  Il punto è che per la mente non è la stessa cosa.

Il soldato nemico, l’Altro, per la mente è l’evento esterno, il dato da acquisire. La mente fa lo stesso lavoro delle due tribù: prima di gestire e digerire il dato, lo fa proprio.  Lo traduce in linguaggio, gli dà un peso a livello simbolico, lo inserisce in un mondo di valori e di definizioni. Infine lo colloca.

Ecco cos’è successo in questi anni: qualcuno ha cucinato per noi, silenzioso e insapore come il cianuro. Qualcuno ha abituato le nostre menti a non avere più a che fare con i fatti. Le bocche del nostro cervello si sono ristrette fino a saper masticare solo fiction. Non notizie ma suggestioni: conduttori di telegiornali illuminati con una fotografia cinematografica, con la colonna sonora sui titoli di testa. La morte nei loro racconti non ha odore. I cadaveri sono coperti con teli bianchi nelle loro immagini e nelle fotografie. Per rispetto dei morti, dicono. Ma forse i morti sulle strade hanno una faccia dignitosissima che non ci sarebbe alcun bisogno di coprire. Forse i volti da coprire per rispetto di chi guarda sono i volti di alcuni vivi, spesso in qualche modo connessi a quei morti sotto i lenzuoli.

Non stavano facendo un lavoro sulla realtà: era un lavoro sulle nostre menti. Ti frullo la carne della Storia a pezzetti così piccoli che per te la verità sarà assolutamente immangiabile e risulterà estranea. E quando te la diranno non ci crederai perché la tua mente non avrà più lo spazio per accoglierla. Disabituare la mente a mangiare l’altro da sé. Come in quelle tribù: una camera di decantazione della diversità.

Cucinare in questo modo significa non ritenere la verità qualcosa da dire per quella che è o per come la si capisce, significa piuttosto ritenere la verità qualcosa da organizzare in una comunicazione strategica. Eccoci qua, belli cucinati.

Cosa c’entra questo discorso con il nostro abituale parlare di cinema? Tutto. Questi sono i mezzi del cinema usati in tutta la loro potenza, male e dove non dovrebbero essere usati. Ci rimane una scelta, finché abbiamo lucidità sufficiente per compierla: rinunciare al ruolo di spettatori paganti, capire che mentre pensiamo di assistere allo spettacolo, lo spettacolo siamo noi. Prendere in mano noi stessi, uscire dal cinema, sentire il dolore dei fatti veri, rinunciare alle mediazioni e alle addomesticazioni, prendere la responsabilità di dare significati nostri alle cose che vediamo succedere intorno a noi. E diventare protagonisti, davvero.

0 risposte

  1. E difficile sì e spieghi anche il perchè proprio nell’articolo: probabilmente i cannibali non avrebbero mai mangiato un nemico ucciso in battaglia, l’avrebbero ritenuto non commestibile. Avrebbero invece ucciso e mangiato un’antilope senza problemi, il loro palato e la loro mente non aveva bisogno di lasciar decantare quella carne…Io accetto il tuo invito ad uscire dal cinema, purchè si sia prima entrati però, anzi, azzardo anch’io una metafora: guardare un film è come guardare al mondo attraverso un buco nel muro, dobbiamo essere tutti coscienti che la vita, il mondo, è dietro di noi…

  2. Ma anche se l’avessi scritto per l’Università di tuo figlio sarebbe apparso un pò ‘difficile’.
    Di te e di Argentieri, oramai, ce ne sono pochi pochi..
    Gigi

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