L’invito mi arriva all’improvviso. Una telefonata dall’Università dell’Insubria. Una tavola rotonda sul cinema e sui nuovi autori, rivolta ai neo laureati in Scienze della Comunicazione. Quando dico a Samuele che farò una tavola rotonda a Varese commenta: adesso fai anche il falegname? Anche Francesca ci mise del suo qualche tempo fa, quando disse che se il regista è quello che decide dove si mette la macchina, il regista fa il parcheggiatore.

Racconterò ai neo laureati questi due aneddoti perché dicono molto chiaramente dell’ambiguità di un mestiere che non si riesce mai bene a definire. E voglio condividere qui i pensieri che in questi giorni ho sviluppato riguardo al tema di questa tavola rotonda: “Scritto, girato e montato”.

Scrivere girare e montare ai nostri tempi è tutt’altro che scontato. Conosciamo i problemi lo Stato, l’Italia, la Crisi, il Governo. Tutte cose sulle quali un autore non può nulla. In definitiva di cosa ci lamentiamo? Del  fatto che il Governo non faccia il Governo, del fatto che il potere non sia gestito nel suo più alto significato di possibilità, ma solo di autorità e che quindi non favorisca la nascita e la crescita della cultura. Ma quando le relazioni non funzionano è sempre prudente girare anche il controcampo e vedere per lo meno un altro aspetto della questione.

Il Governo non fa il Governo. E gli autori… fanno gli autori? Che cosa dovrebbe essere o fare un autore oggi? Domanda troppo grande per me. Posso a questo riguardo solo raccontare la mia limitata esperienza. Per me raccontare è un’azione di relazione. E’ legata all’umanità delle persone e alla loro capacità di istituire legami intimi con se stesse e fra loro. Più precisamente voglio accennare a tre lati del racconto cui sento di dovermi sempre riferire nel mio lavoro.

Il primo lato è legato al coraggio di promettere. Scrivere è promettere una serie di eventi illuminati da un senso che li connette. Promettere è una cosa seria. Chiedi il tempo degli altri in cambio di un viaggio che valga la pena. Promettere significa impegnarsi a forzare il futuro in una determinata direzione. Incidere con la nostra volontà sulla sequenza dei fatti affinché vadano nella direzione che vogliamo. E’ un lato che chiede coraggio, azzardo, entusiasmo e anche un po’ di incoscienza a volte. Non parlo solo dei narratori. Parlo di ogni mamma che fa una promessa al suo bambino. E’ un atto di fiducia verso la vita che ci consentirà di assolvere al nostro proposito. Quando fai una premessa narrativa, fai una promessa di senso futuro che lo spettatore non vede ancora ma di cui sta in attesa.

Il secondo lato è la nostra capacità di perdonare. Perdonare sta dalla parte opposta della storia. Si perdona quando i fatti sono avvenuti. E il perdono è tecnicamente la nostra capacità – e il nostro coraggio – di cambiare la nostra lettura dei fatti trascorsi e di sostituirla con un’altra che abbia il vantaggio di non uccidere le nostre relazioni. Significa non più promettere di indirizzare gli eventi, ma porsi di fronte agli eventi  avvenuti e ripromettersi di cambiare lo sguardo. E’ come sollevare il mondo intero perché se il mondo è quel che noi vediamo del mondo, cambiare un’ottica è capovolgere la vita.

L’ultimo lato nasce da ciò che chiediamo al pubblico. Stare ad ascoltare significa aver fiducia che il discorso avrà un senso pur non conoscendolo all’inizio. Essere fiduciosi nel fatto che il percorso fatto di ostacoli e di dossi continui – che è il percorso di una buona storia – ci porterà ad un punto in cui la fine chiarirà il fine. Questo, dicevo, lo fa il pubblico. Si fida di noi che raccontiamo. Ecco perché per noi è fondamentale – nella mia esperienza – saper ringraziare. Una gratitudine libera. Non per qualcosa che ci viene dato, ma per l’apertura di una porta  nell’attenzione degli altri, per la possibilità che ci è data da chi ci ascolta di comunicare qualcosa di noi, di chiedere condivisione, di chiedere costruzione comune del senso. Perché alla fine è questo: nessuna storia esiste se non è vissuta da qualcuno. Un regalo esiste solo se chi lo riceve è disposto ad aprirlo.

Dunque promettere, perdonare, ringraziare. Impegnarsi sul futuro e rileggere il passato con coraggio. Il ringraziare invece ha a che vedere con il presente. Basta, non andrò oltre.  Loro sono tutti laureati e io no. Perciò sarò breve. E ogni riflessione è benvenuta, che mi  aiuti a smuovere la mia mente con una ventata di fosforo…

 

0 risposte

  1. E’ vero, non sei un falegname, altrimenti non avresti parlato di lati per costruire una tavola rotonda. Poi i lati di cui parli sono tre e quindi sei caduto nel triangolo che è una forma geometrica nella quale non ci si può specchiare. Io tornerei al cerchio, dove non c’è confine, ma al massimo continuità, tra promettere e perdonare, perché già la promessa è quasi un inganno: io prometto, ma lui, loro, cosa si aspettano da me? Già promettere è una pretesa: io ti darò ciò che sogni. E allora non c’è che chiedere contemporaneamente perdono, perché promessa c’è, ma esaudimento no, almeno non completo, almeno non sempre. E poi grazie, questo comprende tutto, grazie per la pazienza che avete avuto continuando a leggere fino a qui, grazie se ci siete ancora. Ma forse non ci siete più…e allora scusatemi.

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