L’altra mattina ho ascoltato una puntata di Melog (Radio24, tutte le mattine dal lunedì al venerdì), di Gianluca Nicoletti. Quando riesco lo seguo, perché a mio avviso ha sempre spunti che vanno al di là delle pure e semplici provocazioni. E lo sforzo che Nicoletti compie per osservare i meccanismi della comunicazione più che le cose che vengono comunicate, è proprio ciò di cui oggi abbiamo bisogno, e che altri fanno con maggior risonanza di pubblico e maggior furbizia.

    Un esempio: Michael Moore, talentuoso e furbissimo, solleva coperchi proibiti ma confeziona ciò che ha sollevato in lavori che rientrano a tutti gli effetti nella godibilità del grande pubblico. E pertanto il suo, più che un lavoro sui meccanismi della comunicazione è un lavoro che si insinua in questi meccanismi, e che lungi dal tentare di scardinarli li utilizza per fare il proprio percorso distributivo.

     L’altro giorno Nicoletti ha affrontato un tema urgente: da una parte la ragazzina quattordicenne uccisa dai compagni nel pozzo dopo essere stata violentata, dall’altra un recente documentario sui giovani di cui ha messo in onda stralci di dialoghi. L’una cosa e l’altra sembravano non parlare dello stesso pianeta. Il documentario mostrava sbiaditi e superficiali conflitti parentali, iniziative di volontariato anch’esse stereotipate ed evanescenti, mentre i telegiornali guarnivano con i dettagli più raggelanti il piatto del giorno.

    Nicoletti a un certo punto si chiede, ascoltando gli stralci del documentario: “Ma saranno poi questi i conflitti dei giovani oggi ?” Domanda sacrosanta. Che però apre un problema di metodo. E’ vero che certamente non sono quelli i conflitti più forti dei giovani d’oggi: andare dalla preside a chiedere se si può appendere un poster, parlare genericamente dei conflitti quotidiani con i genitori ecc. Ma è pur vero che molti giovani li vivono, e che sbiadita è un po’ tutta quest’epoca.  Certo la storia del pozzo ci interroga più aspramente. E’ istintivo, il gesto è brutale. Però non si può giudicare né tentare di capire un’epoca dai suoi estremi, e se facessimo documentari solo sugli omicidi nei pozzi non faremmo giustizia dei giovani ugualmente.

    Come se ne esce ? Non si devono raccontare i ragazzi quotidiani e normali ? Oppure non si devono raccontare gli omicidi ? L’una cosa è più vera dell’altra ? Personalmente credo che il problema così sia mal posto. Perché il punto è il nostro sguardo. Il pozzo non funziona al pari della scuoletta di “regolari”, se rimangono guardate da fuori.  Il problema non è, secondo me, raccontare o meno che tre ragazzini hanno ucciso una ragazzina. Il problema è capire, raccontando l’episodio, che cos’hanno fatto quei tre ragazzini dentro di sé. Che senso ha avuto per loro. Insomma, entrare in uno sguardo che non è il nostro, farci spiegare dal ragazzino le ragioni della sua ragione. Ascoltarlo. Guardare con i suoi occhi.

    In questa chiave  la domanda di Nicoletti, se siano davvero quelli dei liceali perfettini i veri problemi di questa generazione, perde un po’ di significato: non nel senso che non sia lecita – anzi, lo è del tutto e Melog è una fucina di intelligenza – ma che non è la domanda decisiva. Quella decisiva – credo – è se noi riusciamo in questo momento ad assumere lo sguardo dei ragazzi, a lasciare il nostro punto di vista per il loro. Se riusciamo a costruire un ponte. Sui liceali perfettini, o sui ragazzi del pozzo.

     

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