I concerti sono messi in una cartella infinita, con un ordine di esecuzione che lascio volutamente casuale. Tutto Mozart. Può pescare quello che vuole. Isolo almeno una variabile: solo i concerti per pianoforte e orchestra. Alla fine ho capito che sono quelli che mi aiutano di più mentre scrivo. Sfilano tranquilli e fanno il loro lavoro. Poi c’è qualcosa che scompiglia le carte e invece mi ferma. Troppa intensità, troppa modernità, come passare di colpo a parlare di qualcosa che sta avvenendo ai giorni nostri.
E’ il concerto n. 20 KV 422 in re minore. L’attacco del primo movimento è un colpo al cuore, un’inquietudine palpitante che lavora sottovoce e non ti molla. E’ la città che Mozart non aveva mai visto, è il cemento livido di tutto l’inverno, è la nostra voglia di cielo stanca di mesi. Ma soprattutto – ed è quello che mi sconvolge più di tutto – è adrenalina pura. Il palpito cresce e diventa un piano inclinato che sta in bilico tra momenti struggenti, picchi di euforia e svolte romantiche brevi e inattese.
Mi informo e scopro che Mozart per questo concerto non aveva scritto la cadenza. La cadenza è la parte solistica che precede la coda del concerto. Significa che Mozart la affidava al talento del pianista. Significa anche che il centro del suo lavoro si era spostato: non più accenti sul virtuosismo solistico ma un più ampio, complesso, stratificato e innovativo piano musicale. Un’orchestra accresciuta e soprattutto dialogante. Timbri diversi e mondi lontani entrano in dialogo come non era mai successo prima. Tutto un secolo sarà influenzato da questo concerto. Beethoven se ne innamorerà perdutamente, e scriverà la cadenza non scritta da Mozart, che è quella che oggi viene normalmente eseguita.
E’ questo il salto di pensiero che mi fa più impressione. Tutto un mondo di piani e di rapporti sonori preparato con strategia e passione, tutto un universo pensato con una sapienza quasi divina, che lascia una possibilità, un varco, un non scritto. Un vuoto che rende questo concerto sempre possibile. Sempre aperto al pianista, a quella sera, al suo talento, alla sua forma, al suo umore. Possibilità infinite, infinite storie rese possibili dal passo indietro di Mozart.
Il concerto scorre e lo sento quasi irridere il nostro senso estetico così diminuito e rimpicciolito, compiaciuto del controllo di ogni dettaglio della pelle e del tutto avulso dai movimenti di profondità, dalle prospettive veramente rivoluzionarie che sono possibili quando si sta a contatto con la parte silenziosa delle cose. Troppa luce, in questo concerto. Sveste le nostre tecnologie e i nostri know how con una grazia impietosa. Non ho la cultura sufficiente per capire se l’esecuzione che ascoltavo era con la cadenza di Beethoven o del pianista. E forse questa è la condizione che Mozart ha scelto per me prima che Beethoven ci mettesse le mani.
Una lezione. Creare storie è creare mondi, e oggi mi sembra che i mondi migliori siano quelli che rendono altri mondi possibili. I film che ti fanno uscire con sguardi spiazzati e spiazzanti, e-mozionati, smossi. Ora torno alla sceneggiatura: almeno altre tre scene entro sera. Ma non riesco a non pensarci: tredici minuti e mezzo di primo movimento, nove di secondo, sette e mezzo di terzo. Mezz’ora di luce su tutto il secolo successivo. Da non credere.