All’uscita dalla riunione è anche peggio, il freddo è più intenso, il buio è sceso e la stanchezza aumentata. La mia testa è abitata dai pensieri su quello che ho sentito e detto, sul senso di tutta l’esperienza che si stava discutendo. Ma ripasso di lì, davanti al lampione. Eccolo davanti a me, nella fotografia. Un ragazzo che sorride. Un foglio stampato al computer: penso a te che non sei più… Poche righe firmate: mamma. Poi, sotto, una pagina di quaderno a righe scritta con una grafia femminile, dolce. La fidanzata. Non leggo niente però. Guardo questo quadro davanti a me, un foglio sigillato intorno al palo: dolore su ferro nella nebbia.
Non leggo perché quel che c’è scritto è scritto in molti altri punti della città. Punti di lutto in mezzo alla vita che scorre. Una rosa è una rosa è una rosa è una rosa, scriveva Gertrude Stein, combattendo i facili tramonti e le stanche romanticherie di una poesia che stava morendo. Un lampione, invece… Sui bordi delle fotografie e delle lettere per quel ragazzo cingono l’assedio foglietti rettangolari incollati: cercano box, lavoro, monolocali, si offrono per pulizie, corsi, compagnia. Cercano cani smarriti, offrono ricompense. Una rosa è una rosa è una rosa è una rosa, un lampione è un lampione, una bacheca, una memoria. Alla fine, un lampione è niente è niente è niente.
Come tutto il resto dello spazio e del tempo attorno a noi, anche il lampione sta diventando luogo neutro buono per tutto, palude nella quale un lutto appena vissuto e un’inserzione si equivalgono e si contendono lo stesso metallo. Mentre cammini telefoni, mentre telefoni guardi la strada dal cellulare che è anche navigatore, l’oggetto con cui guardi la strada è lo stesso con cui ascolti la musica, scatti le foto, fai di conto, prendi appunti e appuntamenti. Meno oggetti, più polivalenti. Bello. Credo valga anche per i posti di lavoro. Liberi professionisti sempre meno professionali e sempre più liberi. Filmaker riciclati in docenti in critici in blogger. Eccomi qua, presente.
Non ci sono luoghi e tempi per una cosa o per l’altra. C’è tutto e sempre per qualsiasi cosa. Un’idea è anche la sua contraria, la storia si riscrive con i sondaggi, le prove più evidenti sono del tutto opinabili. Viviamo in un tappeto che con la scusa di recepire tutto in realtà non percepisce nulla. Sul lampione foto, lettere, domande e offerte si affastellano fintamente rivaleggiando, in realtà complici dell’unica cosa che stiamo silenziosamente facendo: tritare tutto nell’indistinto frullato dei significati. Che ebbrezza questo minestrone, che leggerezza azzerare ogni traccia dell’universo simbolico da cui proveniamo. Telegiornali che diventano fiction, fiction che sembrano reality, giudici che diventano politici e politici che fanno i giudici. Il lampione prende tutto e ammazza tutto perché di niente si può più dire quello che è.
To be or not to be. La mamma attacca sul lampione la sua memoria e lo fa con una convinzione. Quella del dolore per chi non è più. Tracce di identità che si risveglia di fronte al lutto. To be or not to be. Quando chi scriveva lavorava sul conflitto perché erano ben polarizzate le identità. Le possibilità. I desideri. Le azioni. Tutto un mondo che non c’è più. Una rosa è tutto è tutto è tutto. Una rosa è niente è niente è niente. Riprendo la metropolitana. Linea verde. Almeno di questo sono certo.
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