Prendo la metropolitana, sono le cinque e mezza e il traffico di superficie è un disastro. Attraversare la città da parte a parte è affare di almeno un’ora. Come al solito sottovaluto la mia gloriosa metropoli: in superficie è un disastro e sotto credo vogliano solidarizzare. In ogni modo arrivo. Emergo in una nube umida e ghiacciata. Ho qualche minuto a piedi prima di arrivare alla riunione. Mentre cammino penso che non passa più questo inverno. Auto parcheggiate, fermate, lampioni. E su un lampione, fiori tenuti stretti da scotch. Una foto, varie parole scritte. Ma ho fretta, butto solo l’occhio.

       All’uscita dalla riunione è anche peggio, il freddo è più intenso, il buio è sceso e la stanchezza aumentata. La mia testa è abitata dai pensieri su quello che ho sentito e detto, sul senso di tutta l’esperienza che si stava discutendo. Ma ripasso di lì, davanti al lampione. Eccolo davanti a me, nella fotografia. Un ragazzo che sorride. Un foglio stampato al computer: penso a te che non sei più…  Poche righe firmate: mamma. Poi, sotto, una pagina di quaderno a righe scritta con una grafia femminile, dolce. La fidanzata. Non leggo niente però. Guardo questo quadro davanti a me, un foglio sigillato intorno al palo: dolore su ferro nella nebbia.

       Non leggo perché quel che c’è scritto è scritto in molti altri punti della città. Punti di lutto in mezzo alla vita che scorre. Una rosa è una rosa è una rosa è una rosa, scriveva Gertrude Stein, combattendo i facili tramonti e le stanche romanticherie di una poesia che stava morendo. Un lampione, invece… Sui bordi delle fotografie e delle lettere per quel ragazzo cingono l’assedio foglietti rettangolari incollati: cercano box, lavoro, monolocali, si offrono per pulizie, corsi, compagnia. Cercano cani smarriti, offrono ricompense. Una rosa è una rosa è una rosa è una rosa, un lampione è un lampione, una bacheca, una memoria. Alla fine, un lampione è niente è niente è niente.

       Come tutto il resto dello spazio e del tempo attorno a noi, anche il lampione sta diventando luogo neutro buono per tutto, palude nella quale un lutto appena vissuto e un’inserzione si equivalgono e si contendono lo stesso metallo. Mentre cammini telefoni, mentre telefoni guardi la strada dal cellulare che è anche navigatore, l’oggetto con cui guardi la strada è lo stesso con cui ascolti la musica, scatti le foto, fai di conto, prendi appunti e appuntamenti. Meno oggetti, più polivalenti. Bello. Credo valga anche per i posti di lavoro. Liberi professionisti sempre meno professionali e sempre più liberi. Filmaker riciclati in docenti in critici in blogger. Eccomi qua, presente.

       Non ci sono luoghi e tempi per una cosa o per l’altra. C’è tutto e sempre per qualsiasi cosa. Un’idea è anche la sua contraria, la storia si riscrive con i sondaggi, le prove più evidenti sono del tutto opinabili. Viviamo in un tappeto che con la scusa di recepire tutto in realtà non percepisce nulla. Sul lampione  foto, lettere, domande e offerte si affastellano fintamente rivaleggiando, in realtà complici dell’unica cosa che stiamo silenziosamente facendo: tritare tutto nell’indistinto frullato dei significati. Che ebbrezza questo minestrone, che leggerezza azzerare ogni traccia dell’universo simbolico da cui proveniamo. Telegiornali che diventano fiction, fiction che sembrano reality, giudici che diventano politici e politici che fanno i giudici. Il lampione prende tutto e ammazza tutto perché di niente si può più dire quello che è.

       To be or not to be. La mamma attacca sul lampione la sua memoria e lo fa con una convinzione. Quella del dolore per chi non è più. Tracce di identità che si risveglia di fronte al lutto.  To be or not to be. Quando chi scriveva lavorava sul conflitto perché erano ben polarizzate le identità. Le possibilità. I desideri. Le azioni. Tutto un mondo che non c’è più. Una rosa è tutto è tutto è tutto. Una rosa è niente è niente è niente. Riprendo la metropolitana. Linea verde. Almeno di questo sono certo.

0 risposte

  1. Riprendo Umberto Eco che a sua volta riprendeva non mi ricordo più chi (credo Chesterton): “Da quando gli uomini non credono più in Dio, non è vero che non credano più in nulla: credono in tutto.”

  2. niente da dire, solo che mi ha molto colpito perchè spesso ho fatto i tuoi stessi pensieri, guardando quei lampioni.
    e spesso mi sono fermata a riflettere sulla morbosa attenzione di chi passa e legge, me compresa. strano.

  3. Il tuo scritto mi piace. Ho letto alcune cose sulla rosa che è una rosa e basta, non ci ho capito proprio tutto, ma a suo modo mi ha fatto pensare.

    La foto di piazza Sant’Ambrogio, invece, mi porta in direzione contraria.
    La piazza, la Basilica, la bellezza che sempre trovo in questi luoghi mi fanno sentire Milano meno dura e anonima. Più aperta ad accogliere la differenza fra un biglietto e un altro, a dare un nome a ciascuno, a rispettare la differenza della storia di ciascuno senza farne un unico soggetto indistinto e multiforme.

    A.

  4. Un lampione è solo un lampione. Come una ghianda sarà solo una quercia. Quello che ci trovi sopra, intorno, a fianco è il vestito messo dagli altri. Ma il lampione rimane il lampione. Come il filmaker è un filmaker. Nessun riciclo. Altre “funzioni”, che non devono mai spostare la centratura.
    abbraccio
    liz

  5. Giovanni, qualche settimana fa’ ero a Bologna, ad Arte Fiera, arte moderna e contemporanea. Fra gli espositori un conoscente italiano che ha galleria a New York. Esponeva opere difficili, concettuali, installazioni. Per pararmi dietro uno schermo gli dico che “io non ci sono ancora arrivato”, come gusto, come coscienza, come capacità visiva. Vittorio, il proprietario insieme alla moglie Jennifer, si propongono di aiutarmi e mi raccontano di un Artista Richard Nonas, un antropologo di 75 anni di cui espongono un’opera (una scala orizzontale fatta di mattoni di legno grezzo, non uniti fra loro, liberi di assumere altre e diverse configurazioni). Mi spiegano che l’artista ha vissuto per diversi anni a contatto con popoli “primitivi” delle più diverse etnie e latitudini, etc etc.
    E’ così venuto fuori che per gli esquimesi, in una distesa infinita e mono-tona di ghiaccio, un sasso posato libero in mezzo al nulla, ha il significato di un “luogo”, è “il” luogo che qualcuno ha voluto creare: punto di ritrovo, di orientamento, luogo di commercio, segno di passaggio (“non sono solo qui”). In qualche modo è stato creata una entità di cui bisogna tenere conto.
    Che il “lampione di Giovanni”, a suo modo, possa essere visto in questo modo? Forse un modo per gli uomini di riprendere possesso di un luogo tutto loro (in mezzo ai mille luoghi standard della città) che sinteticamente ne porti avanti istanze e desideri? Ciao Giovanni

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