Mio padre è dimagrito. Molto. Abbracciandolo riesco a toccarmi le mani. Mai successo. E’ ringiovanito, scattante, adrenalinico. Capisco dopo. Mi sveglio una notte e sento odore di ferro. Lo trovo sulla poltrona che sta pulendo una pistola. “Cosa fai con la pistola?”
“Niente, la sto pulendo. Tu vai a letto.”
Ha rinnovato il porto d’armi. Sparava bene quando faceva il militare. Poi una scheggia gli ha bloccato il mignolo destro. Ma spara bene anche adesso. Al poligono. Io sono contro le armi. Una pacifista. La prof di lettere dice che sono un animale politico. Vado alle assemblee, ma capisco poco.
    Non sempre riesco a mettere insieme le cose.
Mio padre tiene la pistola chiusa in un borsello marrone. Lo porta con sé, lo afferra con una mano, tenendolo per una cinghietta. Non sempre lo prende, a volte rimane nell’armadio dietro ai vestiti. Io so dove è, mio fratello più piccolo no. Penso di prendere quel borsello e di buttarlo via. Penso anche altre cose. Quando entra in macchina lo appoggia sul sedile a fianco. È talmente inarrivabile che non riuscirebbe neanche ad aprire la cerniera per prenderla, neanche a togliere la sicura.

“Finirei per farmi male da solo. O per far male a qualche collega…”. Guido Rossa

    Vado al tennis. Con la racchetta in mano taglio nei prati, cammino veloce, poi corro. Dietro di me qualcuno. Mi sta seguendo, è sempre più vicino, si mette a correre. Poi quando mi giro per guardare dov’è, lui si ferma di colpo. Io proseguo e arrivo. Affannata. La sera racconto a casa. “Va tutto bene”, mi dicono. “Fa il suo lavoro.” E scopro che tutto quello che sto dicendo e facendo è sempre sotto lo sguardo vigile di qualcuno. Che mi segue, origlia, verifica le mie telefonate. Arrossisco e mi sento violata.
    “Quando le cose si devono fare, si fanno…” Guido Rossa

Stava su le notti. A scandagliare nomi e cognomi nelle liste. A cercare quelli più vicini alla pensione, quelli senza figli, quelli che… Diceva: “Quando le cose si devono fare, si fanno”. Un direttore sporco di grasso, che si ostinava a rovinare fazzoletti bianchi e pantaloni eleganti. Perché in fabbrica ci stava e conosceva le persone per nome. Non è l’uomo che si vuole colpire ma la divisa.

“Ho visto Berardi…” dice Guido Rossa.

Piovono fiori dal cielo. Li lanciano al passaggio della bara. L’odore della pipa di Lama in mezzo al freddo e all’umido è quasi l’unica cosa che mi ricordo. Poi la faccia di Berlinguer. Poi gli ombrelli, talmente tanti e neri che come corvi mi oscuravano il cielo. E pioggia, tanta. E tante mani. E tanti che ancora non capiscono, come me. E fiancheggiatori, simpatizzanti, amici, sostenitori, spalleggiatori, linguelunghe.

    Lo Stato. I Comunisti. I poveri, i quadri, i dirigenti, i direttori. I figli e le madri. Mi guardo intorno. Non distinguo le facce, i pianti, gli applausi.

“Se il gesto civile di Rossa non fosse stato troppo isolato; se attorno si fosse formato un cemento per sorreggerlo;…” Luciano Lama

Quando entro a scuola tutte le mattine è quasi l’ora. Il momento in cui la radio e la televisione danno il bollettino di morte. A volte rimango sospesa ad aspettare. Altre volte telefono a casa. Qualche volta vengo chiamata in presidenza: “Tuo padre sta bene. Non è lui”. Il suo collega, un giudice, un giornalista, un politico, un suo collega, un giudice, un operaio, un magistrato.
“Gambizzato”
“Morto”
“Rapito”

    Pietà l’è morta.

“Tutte le mattine fai la stessa strada- gli dice un compagno di lavoro- guarda che questa è gente che deve colpire perché non può lasciarti. Bruceranno la macchina, ti spareranno, per questo non ti possono lasciare così come un altro perché tu sei un operaio che ha fatto una cosa che loro non perdonano”.

Mio padre avrebbe dovuto essere seduto lì. Al posto di guida della sua Triumph Dolomite Sprint. L’hanno fatta saltare in aria con una bomba. Lui era dentro un minuto prima. Quello dopo l’avevano richiamato al telefono. Era mia madre. L’angelo dei padri passava da quelle parti. E’ uscito dall’abitacolo e rientrato in stabilimento per rispondere al telefono. La macchina è saltata. Lui si è salvato. Quella sera non è rientrato a dormire. Ho visto la sua faccia al telegiornale.

    Mi ha telefonato Marta. “Tranquilla, non è morto.” Sì è ancora vivo.

Un Blog. Uno tra i tanti. Insignificanti. Noiosi. Menosi. Ridondanti. Melensi. Specchio dei tempi. Inutili. Su un Post qualunque, un messaggio perso nella rete, leggo ancora di quel giorno. Il titolo:
Le figlie degli operai.
Pagina commovente su Guido Rossa, la sua morte, la figlia. Operai, figli di operai, operai… i figli degli operai, operai… i figli degli operai, gli operai. Provo a rispondere e mi ritrovo a dire ancora le stesse cose. A leggere e sentire ancora le stesse cose. Una pagina senza archivio. Uno slalom tra pentimenti ed ergastoli. Vetero invecchiati e vetusti, senza riscatto e con la faccia al contrario.
Ancora le parti. Niente, neanche la storia, la vita, la filosofia e l’impegno riescono a cancellare le appartenenze. Gli schieramenti. Le postazioni. Anche la paura. Quella non la dimentichi.

Telefonate anonime. Domande, continue. La mia età. Quella della mamma. Dove vado a scuola. Dove lavora. Quando torna papà. Dov’è in questo momento. Minuti veloci poi giù la comunicazione. “Non devi dire mai niente.” Non dirò mai più niente. Lo giuro. Né quando sono nata. Né il nome di chi mi sta vicino. Non rispondo più. Non dirò più niente.

    Sabina Rossa, apprendo, è stata eletta terza nella lista dei Ds al Senato. Nella sua terra, la Liguria. Da figlia pensa che “…per quanto riguarda me, come figlia, non sia valsa la pena”.
Un padre colpito dai nemici della libertà.

Mi chiedo se quel giorno, io più piccola di lei, avrei potuto distinguerla da me, da tutti quelli che sapevano di non dover dire nulla al telefono, di non dover temere le pistole, cresciuti che si deve fare quello che si deve fare. Protetti e abbandonati dagli angeli.
Sì che avrei potuto. Io ero ancora quella della paura, lei quella dolore.

 
    I corsivi:
* Antonio Negri, Il dominio e il sabotaggio, Feltrinelli
* Giancarlo Feliziani, Colpirne uno educarne cento, Limina
    Il racconto è stato pubblicato in “L’Italia si racconta 60 anni di Repubblica”, Arcilettore edizioni.

0 risposte

  1. finalmente la seconda parte. grazie. e grazie anche per aver lasciato commento da me. non avendo io il dono della parola scritta come voi, posso solo fare da ponte, quando trovo cose che mi folgorano!
    massimiliano

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