C’e’ poca gente, il sole e’ ancora basso e lascia ombra fra le case per camminare. Davanti al Duomo c’e’ un anziano carabiniere con una bandiera. Dopo qualche minuto – mentre sono lì che leggo – vedo arrivare altri corpi militari con bandiere. Tutti ex combattenti. Si salutano, non sono molti. Nessun civile, solo un rappresentante del Comune. Una donna sui settantacinque forse piu’ prende la parola. All’inizio non l’ascolto, preso dalla lettura. Poi lei e’ talmente brava, talmente capace di portarmi dentro la sua storia, che rinuncio volentieri a leggere.

Non si può tracciare una riga blu su una cartina – dice – e separare un paese. E dire che una parte del mondo che si sente italiana di colpo non lo è più. Il racconto è naturalmente autobiografico. Lei è una bambina istriana, Tito si sta prendendo quel pezzo di terra. In casa Miriana assorbe i discorsi dei genitori, così quando un giorno la milizia entra in aula nella sua scuola, lei è l’unica bambina che non si alza in piedi. I tre miliziani insistono ma lei resiste. Allora la maestra li prega di calmarsi, prova a parlarci lei. Le va vicina vicina e le dice sottovoce: Miriana, tu mi vuoi bene? – Certo, risponde Miriana stupita. Allora ti ricordi quello che ti ho fatto vedere? Continua la maestra tremando. E si slaccia un bottone della camicetta. C’è tatuata sul petto la sua matricola di ebrea. Ti ho raccontato del lager. Se tu non ti alzi si va in Siberia. E dalla Siberia non si torna.

Miriana si alza. I tre miliziani – risolto il problema – si dedicano al crocifisso. Lo sostituiscono con un ritratto di Tito. Uno dei tre soldati tenta di rompere la croce  pestandola sul ginocchio piegato. Non si rompe, così la pesta sulla cattedra. Non si rompe. Allora si inginocchia e la pesta per terra. Finalmente riesce nell’impresa. La “maleducazione” di Miriana viene segnalata e i genitori vengono convocati per firmare la loro scelta: rimanere italiani o meno. L’appuntamento per i due è alle 10.30 del mattino. Lavorano in fabbriche diverse e si trovano davanti all’ufficio all’ora stabilita. Firmano: rimanere italiani. Tornano al lavoro ognuno per sé. Alle  12.30 sono entrambi licenziati.  Gli viene comunicato l’orario dell’ultimo treno che possono prendere.

Miriana è a casa con la mamma. La mamma piange, accarezza porte, tavoli, pentole. Non vuole lasciare tutta la sua vita. Miriana non capisce: pensa solo che saremo liberi, mamma. Pensa che potremo andare in chiesa e restare italiani. Ma la mamma è inconsolabile, tanto che dev’essere Miriana a raccomandarle di fare in fretta: non possono perdere quel treno. Finalmente escono.  Arrivano in stazione con una valigia e prendono quel treno. La mamma si mette seduta e piange. Miriana la consola, lei si sente allegra. Le chiede di andare al finestrino. La mamma acconsente purché rimanga a vista.

Miriana guarda fuori e il treno passa nel suo paese. Vede sfilare via la chiesa, casa sua, la scuola. Li vede allontanarsi. Capisce che è per sempre e comincia a piangere disperatamente. Capisce in quel momento – da bambina – la differenza tra profugo ed esule. Il profugo spera sempre di tornare in patria, l’esule sa che non ci tornerà mai.

Miriana finisce il suo racconto. La sua voce è serena, ironica, senza commozione. Avellino non si è ancora svegliata e sulle sue strade è successa tutta una guerra. Nel libro che stavo leggendo c’è scritto che i ricordi non si possono scegliere. Però si può decidere a quali dare forza e valore e a quali no. Il fatto è che il ricordo raccontato diventa il presente della vita di chi ti ascolta. Per cui sono stato in quell’aula, in quella casa, su quel treno. Miriana adesso vive ad Avellino. Ho incrociato questo treno per puro caso e ora è un mio ricordo.

Ascolto storie dal passato, mi ci emoziono nel presente, le lancio nel futuro raccontandole a mia volta. Strano pensare che quello che stai vivendo senza magari venirne a capo, servirà tra molti anni a qualcun altro che lo sentirà raccontare. Strano pensare di non essere necessariamente il terminale ultimo del senso di noi stessi. Magari ci siamo per diventare un racconto per altri. Passo dal bar e prendo una granita al limone prima di cominciare a lavorare. Abbastanza buona, penso. Non indimenticabile. Scegliere i ricordi.

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