E’ una cosa che ho sempre pensato e trovarla nel libro di Mimmo – che ho la fortuna di conoscere per l’esperienza alla Paolo Grassi – mi riempie di felicità: non è possibile – per me – parlare di come si racconta una storia senza  prima parlare di chi la racconta. Perché noi siamo la storia che raccontiamo e anche tutte quelle che non sappiamo di raccontare. Quelle che ci si leggono addosso e che gli altri conoscono molto meglio di noi.

Quello che esce chiaramente dal libro di Mimmo è che bisogna partecipare. Un verbo che a volte si perde per strada, troppo usato in passato per non destare qualche mugugno. Il punto è che ognuno di noi della partecipazione ha una propria idea e una propria esperienza. Nel mio piccolo orizzonte sento che troppo spesso – quando lavoro con gruppi di professionisti e non – c’è un’idea di storia e di racconto di tipo classico:  la nonna che racconta al nipotino una storia con un messaggio edificante rifilato nel mezzo. Si tratta di far passare indenne un’idea da una mente all’altra, utilizzando un racconto.

Ecco, per me questo non è partecipare ma dividere. Così le storie non sono una via di contatto ma una linea di separazione: vediamo se ti arriva nella testa quello che ho nella testa io. Invece alla storia partecipa sia chi racconta sia chi ascolta. La storia è una danza che danziamo insieme. Non siamo tu, io e il linguaggio in mezzo a noi a fare da tramite. Siamo tu ed io dentro il linguaggio. Il linguaggio che è noi e che vive con noi e ci definisce e ci trasforma. Quello per cui una sfera davanti a noi può essere un pallone da basket o da calcio, gonfio o bucato, pesante o vecchio o sporco o colorato. Quello che definisce le cose e noi stessi.

Ecco che cos’è la storia che viene raccontata. E’ tuffarsi nella relazione con gli altri e con noi stessi. E’ scoprirsi in contatto. Essere nelle parole che si dicono, essere con gli altri attorno alle parole ascoltate. Non è banale, perché  siamo mediamente molto lontani dalle parole che pronunciamo. Invece possiamo riformularle insieme. Partecipare a questa infinita rielaborazione dei significati che assegniamo alle cose. Farci rielaborare e rimescolare dagli altri. Le storie sono questo, noi siamo questo.

Allora mi domando: che cosa significa essere dei professionisti in questo campo ? Peggio ancora: che significa essere professionali ? Nel nostro terreno – e Mimmo lo spiega con parole acutissime – non significa granché. Il lavoro dell’incontrare un personaggio e una persona è un lavoro che si fa solo oltre la linea della correttezza e della professionalità. E’ sempre un atto gratuito il cui esito è incerto. Un’apertura per il cui rischio non esiste polizza. Eppure, è una festa.

Poi ci penso e mi dico che ogni altro lavoro del mondo è così e che in questo non c’è nulla di diverso. E’ una festa sempre se lavoriamo facendo parte del linguaggio che usiamo ed è spesso un inferno se usiamo il linguaggio per comunicare idee fra teste distanti, standone al di fuori. Vale in posta come in teatro, in ospedale come sul set. Partecipare con tutti noi stessi ad ogni parola che utilizziamo e dire parole che conosciamo davvero. In questo Mimmo racconta un’esperienza straordinaria. E mi piace poterlo ringraziare su questo blog, di cuore.

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