In questi giorni mi è capitato di dibattere argomenti non facili con alcuni allievi di sceneggiatura. E ho avuto la sensazione che di fronte ad alcuni quesiti ci sia, talvolta anche nelle persone più fini e brillanti, il desiderio di ricette. Naturalmente non ne possiedo. Ma questa pagina mi è sempre sembrata un valido aiuto nel riflettere sul ruolo che la nostra esperienza personale può e deve avere quando scriviamo.

    “Non metabolizzate, le nostre vite, le nostre percezioni personali e le nostre esperienze non comunicano nulla. Senza un precedente interesse extra-testuale nello scrittore, non possiamo aspettarci di coinvolgere gli spettatori. Per definizione, ciò che è puramente personale risulta del tutto irrilevante per gli altri.

    Sebbene non sia il caso dei manuali di scrittura, la maggior parte dei libri sul lavoro di sceneggiatura mette in guardia dall’impegno introspettivo proprio per questo motivo: in un medium che necessita di raggiungere milioni di spettatori, si assume che i dettagli della nostra esistenza non  offrano nulla di abbastanza “ampio”. I manuali di sceneggiatura pongono l’enfasi su aspetti concettuali come la struttura, i finali d’atto e persino le concezioni esterne del personaggio come strumento di separazione dello scrittore dagli aspetti personali, concentrandosi sulle pratiche comunicative anziché sull’estrazione di significato da quanto ci è familiare. Fanno questo per varie ragioni. (…)

    Ma la consapevolezza del pericolo insito in questo approccio non ci deve scoraggiare dal partire dalla nostra percezione del mondo; se non seguiamo questo percorso avremo ben poco da comunicare con il nostro lavoro. Occorre comunque imparare che nel comprendere pienamente la nostra esperienza, dobbiamo anche essere capaci di discostarcene, per poter capire quanto può essere significativa per lo spettatore. La questione non è tanto di tipo tecnico, quanto di coraggio e onestà nel considerare noi stessi.

    Tutti noi abbiamo delle zone oscure, dove le motivazioni non sono chiare, o dove la percezione di noi stessi serve a nascondere le delusioni; ciò può tradursi in un materiale ricco e potente, ma può essere anche materiale terrificante da esaminare. In ogni caso, non possiamo scrivere di queste zone senza un’onesta consapevolezza di noi stessi. I personaggi potrebbero rimanere bloccati all’interno di questa trappola di autodelusione, ma noi, come sceneggiatori, non possiamo caderci. Dobbiamo spingere i nostri personaggi al punto in cui o riescono a vedere o sono perduti per sempre.”

Ken Dancyger, Jeff Rush. Il Cinema Oltre le Regole. 

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