Me la ricordavo diversa. E’ che in realtà i viaggi che abbiamo fatto sono quello che abbiamo vissuto dentro di noi. Mi ricordavo Venezia come una struggente memoria che lotta per non affondare. Attraversata ma non sommersa dai canali, ferita ma non uccisa dalla consunzione, dalle onde eccessive dei motoscafi. Affollata ma non abitata, dura ed evanescente, quasi scomparsa eppure mai ferma. Erano giorni più caldi e assolati, e i canali cucivano case e persone, gotico fiorito e impalcature in un unico mondo vivo e presente.

       Adesso Venezia è congelata, e anche se c’è sempre gente che fotografa, guarda, commenta e compra, c’è qualcosa di più silenzioso che è sceso sull’acqua e sulle strade. Sono qui per lavoro e i miei occhi sono diversi. Il ritmo è diverso. Vedo la gente che fa quel che facevo l’altra volta con Giada e i bambini. Tornare in un posto dove si è vissuto qualcosa è sempre molto rischioso. Guardi tutto come in dissolvenza fra questa volta e la volta prima. Per cui non capisci bene in che punto ti trovi, se quello che vedi è realmente diverso o se sei tu in un punto diverso.

       La donna entra nervosa, sa che deve giocarsi tutto in un minuto forse meno. Sul suo curriculum ha scritto: Età 41, Dimostrata 30 – 32. Alla domanda precisa non risponde. Dice che oggi  più nessuno dimostra l’età che ha, che siamo tutti più giovani di aspetto e che forse dovremmo ritarare anche la nostra percezione  di quel che significa dimostrare un’età. La commissione si innervosisce, ne abbiamo 400 da vedere se facciamo un dibattito con tutti…

       Mentre torno all’albergo a fine giornata penso proprio a lei, a quella donna dall’età meteorologica: 41, percepita 32.  E mi chiedo perché l’abbia fatto. Perché innervosire una commissione tergiversando. Ovviamente perché non pensava di innervosirla ma di stuzzicarla, di rendersi visibile, interessante. E mi chiedo che cosa debba veramente fare una commissione che fa casting. Si tratta di valutare l’idoneità di una persona a ricoprire un determinato ruolo all’interno di un film. Per fare questo sarebbe molto meglio parlarsi in un bar, poi magari fare una prova. Insomma conoscersi, entrare in una relazione corretta. Ma quando sei sotto giudizio non ti si può chiedere di essere veramente quello che sei. E… nemmeno quando giudichi.

       A parte il casting, penso che sia un po’ tutto così. La situazione in cui tu puoi essere veramente te stesso e l’altro anche, la situazione “depurata” dai condizionamenti, dalle strettoie, dagli interessi e dalle ipocrisie che rendono “funzionante” un modo di fare piuttosto che un altro… probabilmente non esiste. Passo un ponticello a gradini tra i vicoli, e l’acqua fuma la sua nebbia intensa ingiallita dal sole. E’ tutto freddissimo.  Mi chiedo quanto sia navigabile per davvero il canale della comunicazione e della relazione. Se fossimo veramente noi stessi e non  gli altri cento che ci serve o ci piace diventare… di che cosa potremmo liberamente parlare? E di che cosa parliamo in realtà quando parliamo d’altro? 

       Venezia è piena di maschere e di negozianti che ti giurano che le loro non sono fatte in Cina, che dei cinesi non se ne può più. Sorrido alla signora che mi incarta quella per Samuele:  la sua maschera – si vede – è certamente autentica, come la mia. E alla stregua di quella che mi incarta, è la maschera che vende.  Come me. Il ponte sul canale, quell’età dissimulata, quella posizione da esaminatore ad esaminata, quella città piena di gente e con gli appartamenti vuoti. Sono tutte queste cose che si dissimulano e si confondono, che rendono difficile navigare.

       Torno sempre lì, alla fine, i miei allievi lo sanno: di cosa parliamo davvero mentre cambiamo discorso ?

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